Piatto Unico (se gradito) #19
Il coinquilino quello grande sicuro mi legge le bozze della newsletter: stamattina mi ha fatto trovare un ciambellone al cioccolato per colazione.
Ben ritrovati a tutti!
La colazione, il momento Trunks del futuro del mattino, intrisa del potere che permette di immaginare l’intera giornata che sta per iniziare. Sogno di poter diventare un esperto di colazioni, un giorno: un dottore, un ingegnere, financo un ricercatore delle colazioni, l’esimio dott. Colazione. Vorrei entrare in casa delle persone per scoprirne le abitudini, per quantificare scientificamente l’importanza di ogni minuto speso per fare una colazione che sia bella, prima ancora che buona e sana. Poche cose nella mia vita mi fanno incazzare come saltare la colazione o, peggio ancora, esserne disturbato durante. Per me la colazione perfetta si fa da solo, possibilmente seduto ma va bene anche in piedi; inoltre, è necessario che non ci siano stimoli esterni e infatti si tratta di uno dei pochi momenti in cui non ho appresso lo smartphone. Sto lì, con “lo sguardo perso nel vuoto di un perplesso Milito” e la testa che viaggia a casaccio, su pensieri che sfuggono al mio controllo. Due mattine fa è successo questo: stavo farcendo le fette biscottate e mi sono accorto che l’azienda che produce la crema di frutta secca che uso ha sede a Russi, provincia di Ravenna. Ho iniziato a vagare fortissimo, mentre addentavo queste merda di fette integrali che avevano perso croccantezza. Russi. Dov’è che ho già sentito la città di Russi? Mi sono alzato per spegnere la sveglia, quella delle otto, quella del ritardo. Città di Russi, possibile che c’entri il calcio? Sono ritornato in cucina e ho studiato il barattolo, come se fosse centrale per riallacciare questo pensiero. Poi ci sono arrivato e c’entrava veramente il calcio, ma ve lo racconto più avanti, che ho finito lo spazio.
Devo confessarvi che scrivo le newsletter con alcune settimane di anticipo rispetto alla data di pubblicazione: sono riuscito, dopo anni di allenamento, a manipolare lo spazio-tempo, creando questo intervallo che personalmente mi piace , perché in intro scrivo cose che poi rileggo due o quattro settimane dopo. Ad esempio, oggi a Bari c’è un tempo terribile: piove da due settimane, ho la camera piena di roba da lavare e l’aria in centro sa di salmastro, di video di Serena Brancale girato al porto, con 3,4 milioni di visualizzazioni. La prima volta che sono finito sul suo profilo, guardando la bio ci sono cascato come un baccalà vero, perché pensavo che fosse una della band MGMT1. Ma la vera domanda è, mentre la Brancale è praticamente ovunque e cavalca una notorietà inedita: Bari si sta preparando a diventare la nuova Napoli della cultura pop, seguendo un’ondata di hype trainata dalla musica, dal calcio e dagli eventi cittadini? È un caso che la famiglia De Laurentiis sia proprietaria sia del Napoli Calcio che del Bari Calcio? Questo processo interesserà tutte le grandi città che danno sul mare, e quindi toccherà prima o poi anche a Genova e Taranto? E ancora: sono pronto io stesso a vivere in una città che in cinque anni sarà invasa ancora di più da turisti pronti finalmente a mangiare il panino col polpo con mollica o senza? Probabilmente no.
Oggi antipasto abbondante, cominciamo.
“Mettetelo di lato/Deve stare dritto”
Sono stato a vedere il Basket Francavilla, la squadra della mia città, che ospitava la Fortitudo Basket Apricena, fanalino di coda del girone. Incredibile che la città si chiami realmente Apricena, ma ancora più assurda è la sensazione che provo ogni volta che vado al palazzetto di Francavilla. Sono cresciuto in una città che non aveva, fino a qualche anno fa, una struttura multifunzionale per discipline come il basket, la pallavolo o qualsiasi cosa necessiti di superfici non in erba: abbiamo dovuto aspettare così tanto e sentirlo nominare in così tanti programmi elettorali che adesso non sembra possibile che ci sia veramente e ogni volta penso “Vabbè sarà crollato sicuro o magari sarà scomparso” e invece sta lì, tutto bello illuminato, con tanto di bar in funzione. Qui potete trovare un racconto di quando ho seguito alcune partite del Basket Francavilla quando giocava nella vecchia palestra della Scuola Media San Francesco: devo ammettere che allora si respirava un’aria diversa, forse perché eravamo tutti seduti vicini e si creava quell’effetto catino che tanto emoziona negli impianti di provincia. A ‘sto giro ero insieme a Ciccio, che ci legge e che saluto, salutate pure voi, maleducati, ed abbiamo facilmente trovato posto su degli spalti oggettivamente semi-vuoti, piuttosto aridi di quel calore per la squadra che invece mi aspettavo.
La partita è stata oggettivamente noiosa, come accade sempre quando il rapporto tra le forze in campo è completamente sbilanciato: Apricena era alla prima con il nuovo allenatore, un signore molto divertente che ha passato la prima metà di gara a gridare come un posseduto, correndo da una parte all’altra; ha pure sostituito, dopo soli due minuti, un povero cristo di giocatore partito in quintetto, lanciando così un messaggio agli altri in campo. Quando il Francavilla ha costruito l’inevitabile gap, anche lui si è arreso ed è rimasto seduto in panchina a bofonchiare con il suo assistente, sicuro cose tipo “Ma chi cazzo ce l’ha fatta fare a venire qua?”
Nonostante i tifosi di casa stessero incitando oltre ogni misura un giovanissimo francavillese, un certo Palazzo, l’highlight della partita è arrivato verso la fine e non riguardava nessuna giocata: un giocatore della squadra avversaria ha preso una botta alla nuca e ha perso i sensi. Dal preciso istante in cui è caduto a terra fino a quando è arrivata l’ambulanza sono passati tra i 17 e i 19 minuti. Dovete sapere una cosa che a me sembra assurda: nelle serie inferiori, se la squadra di casa porta il medico sociale a bordocampo non c’è bisogno della presenza di una ambulanza. Per una squadra di questa categoria, avere una ambulanza fissa ad ogni partita è un costo che può incidere in maniera importante sui conti di fine anno, quindi il dilemma è trovare un equilibro tra spese sostenibili e voglia di vivere una partita in casa sperando che non accada nulla.
Ho vissuto quei venti minuti con la paura che stesse morendo, honesto, pulito: dalla mia posizione vedevo solo le persone che lo attorniavano durante il primo soccorso e non avevo un’idea chiara di cosa stesse succedendo. Fin da subito ha iniziato a serpeggiare una certa tensione anche tra i tifosi e infatti una signora, seduta sugli spalti di fronte, ha abbandonato il suo posto per avvicinarsi al parquet e urlare “Mettetelo di lato! Deve stare di lato! Mettetelo di lato!”; una ragazza dietro a me, che ha goduto della quiete tipica delle partite per studiare degli appunti, ha risposto bisbigliando “Ma quale di lato signora, ma quale di lato, deve stare dritto, l’ho studiato!” e mi sembrava la scena di Piton angòr, n’atr vot Piton che prova a far cadere Harry dalla scopa. La contrapposizione tra le due correnti, tra i rimedi antichi e le idee fresche della nuova generazione, mi ha agitato ancora di più, perché purtroppo il tipo ci ha messo un po’ ad alzarsi e l’ambulanza se l’è portato via che stava in piedi con difficoltà.
Può succedere una tragedia a partita, mi rendo conto che è inevitabile. Nello sport, situazioni di questo tipo sono così imprevedibili da poter succedere tanto ai Mondiali quanto per strada e riuscire a convivere con questo pensiero, anzi addirittura concedere alle squadre la scelta di potersi trovare in questa situazione pur di risparmiare qualche migliaio di euro, è oggettivamente terribile. Il Francavilla ha vinto, si, ma sono tornato a casa con la sensazione che l’avessimo scampata, che non ci fosse scappato il morto per un caso e che per dettagli avessimo evitato di finire su Repubblica dal lato sbagliato.
Sbattere violentemente sul tavolo
Momento: vacanze di Natale 2023, turno di gioco infrasettimanale, sera. Dopo cinque ore di Switch e un completo isolamento dal mondo esterno, giunge inesorabile il momento di cenare e quindi mi alzo dalla scrivania, assorbo il rapido giramento di testa da ritorno alla realtà, recupero lo smartphone e vado a cucinarmi qualcosa. Mi accorgo subito che il telefono, un onesto Redmi-qualcosa, non sta funzionando: i tasti laterali del volume e del blocco schermo sono impallati e non reagiscono se li premo. È chiaramente un problema, perché il volume scende sempre verso il minimo e inoltre non posso bloccare il telefono ma poco male, ci sono delle priorità, continuo a cucinare e non me ne preoccupo. In sottofondo, video natalizio di Alessandro Orlando.
Mi siedo in tavola con la mia tristissima piadina rucola/grana/bresaola. Mentre aspetto che si raffreddi, cerco di venirne a capo e premo i tasti con più vigore, magari c’è della polvere, ma ancora nulla. Vabbè riavviamolo, la panacea a tutti i problemi, sarà una roba software, si riprenderà da solo. Qui però iniziano i cazzi, perché mi ritrovo bloccato in un limbo: il telefono si riaccende ma va in protezione, con una interfaccia ridotta all’osso che mi propone di riavviare il telefono, farlo partire in modalità safe, ripristinare le impostazioni di fabbrica o collegarlo a un PC per il recupero; inutile specificare che sono quattro alternative inutili, perché non succede nulla e quindi sono ufficialmente senza telefono.
Nel decorso delle soluzioni homemade, superato lo scalino iniziale della Sperimentazione, si passa alla fase della Consulenza, che nel mio caso corrisponde a cercare su Google. Il primo consiglio che trovo è anche il più bello di tutti: lo vedete in foto e meglio articolato in questo Reddit, dove diversi utenti consigliano di impugnare il telefono tipo machete e sbatterlo più o meno violentemente sul tavolo dal lato dei tasti. Niente da dire, è un gran consiglio, sostenuto da un sacco di utenti troll che rispondono “Grande, per me ha funzionato istantaneamente”2. Lo ignoro e passo a una guida che mi consiglia di tenere premuto per 11 secondi il volume in basso e il blocco tasti, così da far ripartire il telefono: effettivamente qualcosa succede e riesco a ritornare alla home ma i tasti non funzionano ancora e le app sono tutte scomparse, quindi ho di nuovo un telefono ma con le stesse funzionalità di una calcolatrice.
Dalla Consulenza passiamo alla Crisi di Risultati: con video tipo questo o questo mi fotto oltre un’ora appresso a gente che mi suggerisce di scaricare app di terze parti per gestire il volume, così da riprogrammare la mia vita senza questi tasti. Mi stresso, è evidente, e la piadina, che già faceva pietà, ora è anche un ghiacciolo. Da qui ci metto poco ad arrendermi: abbandono il Redmi al suo destino e mi metto a cercare un nuovo smartphone da comprare SE NON FOSSE CHE la resa non mi scende e la vocina dentro di me inizia a ripetermi con insistenza che questo telefono potrà andare in pensione solo quando sarà esploso in mille pezzi. Devo venirne a capo, c’è in gioco il mio onore, devo sbattere e sbattermi un po’ di più per capire come fare e allora torno su Google e continuo a ravanare dentro qualsiasi sito del mondo fino a quando non mi rimangono due opzioni: telefonare a quegli scam indiani che fanno finta di aiutarti in remoto e poi scopri che ti hanno venduto una baracca di street food in India, oppure sbattere ‘sto maledetto telefono sul tavolo e alla fine mi convinco, lo prendo di taglio e bam! bam! bam! lo sbatto come un esaurimento ambulante e quello incredibilmente ritorna a funzionare come prima e allora ritorno sul Reddit per porgere le mie scuse ai luminari e scopro che non c’è nulla di razionale in questa cosa, succede sempre così da anni e la gente ha ormai sviluppato la mossa di sbattere i Redmi per farli funzionare, tipo processo evolutivo dell’uomo, creando una coscienza collettiva di come si sbattono i Redmi e quando ho finito, nel mondo, sono magicamente scomparsi tipo mossa di Thanos almeno cinquanta tecnici dei telefonini.
Caro Franco, come stai?
Ciao Franco,
tu forse non ricorderai, ma io si e già questo è uno a zero per me.
La prima volta in cui ti ho scritto in privato è stato dopo aver ascoltato una puntata di Chiacchiere, con Massimiliano Di Marco, in cui hai fatto un passaggio interessantissimo sui videogiochi: parlavi della tua passione per quelli dove si premono pochi tasti, giochi bellissimi dove lo smanettamento è ridotto a zero e tutto il grosso del lavoro è spostato nella testa del giocatore, nel processo decisionale, quel percorso di pensieri ed esperienza che ti porta a premere uno specifico tasto. Ero e sono tutt’ora straordinariamente allineato con te: sarà per i trent’anni o per la pigrizia generale che sto coltivando con amore ma io continuo a ricercare sempre più spesso questa caratteristica nei videogiochi, perché non c’ho più voglia di fare le combo con i tasti come in Tekken e ho mollato Fortnite quando ho iniziato a non ricordare più quali fossero le armi migliori. Così adesso preferisco le robe concettuali, dove la testa lavora molto più delle mani ed è per questo che ti ho scritto quel giorno, come il più classico dei fan boy, consigliandoti Kingdom Two Crowns.
Tu sei stato gentile con me e hai risposto con educazione, come si fa quando uno sconosciuto compare all’improvviso nella tua vita e si sente in diritto di dirti cosa fare. Eppure sono sicuro che tu non l’abbia mai nemmeno visto di sfuggita, perché a parti invertite avrei fatto esattamente lo stesso. Ti capisco, ci mancherebbe, però Franco io ‘sta marchettata te la devo fare di nuovo, ancora di più ora che Alessandro Redaelli ne ha parlato in uno dei suoi Tiktok, di fatto tagliandomi per sempre fuori dal novero di quelli che “ve l’avevo detto prima io”.
A distanza di un anno da quando l’ho giocato per la prima volta, ho ripreso Kingdom Two Crowns qualche settimana fa, spendendoci nuovamente un fottìo di tempo: quasi cento ore di intrattenimento per un gioco pagato 5 euro, non so se esiste un rapporto migliore. La verità è che non riesco a fare a meno di questo gioco, che ormai considero un bene rifugio: quando mi scoccio di tutta la baracca, lo riprendo per farmi tornare la voglia di insistere coi videogiochi, di considerarli ancora un mezzo divertente. Esteticamente è perfetto, ha il magico potere di strapparmi via dal progresso tecnologico, dal motion capture e dal fotorealismo, che rigetto con forza sempre maggiore perché se è vero che i videogiochi sono qualcosa per evadere dalla realtà allora io voglio poterlo fare anche a livello visivo; sono così saturo delle cose che vedo, della malinconia che provo quando passeggio da solo, dell’opulenza delle Mercedes con due marmitte, delle case diroccate e delle pozzanghere melmose, dei gatti morti vicino al guardrail dell’Adriatica, dei cessi nei locali pubblici, della gente in fila fuori dall’Antica Pizzeria da Michele, di quelli che lavorano da EY, dei cantieri, dei bidoni della spazzatura sotto casa, delle serie TV e delle macchine d’epoca, così stanco da voler fuggire da questa vista per nascondermi in un mondo medievale in pixel art, fatto di fabbri col martelletto e picchieri che usano la lancia per pescare pesci.
Ma poi c’ha una grandissima colonna sonora, con oltre ottanta tracce strumentali e tutte originali ma, ancora, è straordinariamente stimolante, una sfida continua e praticamente infinita che ancora oggi mi porta a scoprire nuove logiche, a imparare dai miei errori stressando oltre ogni misura il concetto stesso di gioco, che a quel punto si spoglia del suo significato puramente ludico e diventa una occasione di miglioramento personale, di sfida, di ricerca della convinzione che mi fa dire “avevo pensato giusto”. La verità, caro Franco, e qui chiudo perché siamo andati lunghi e questa frittata di uova, spinaci e semi di girasole non si girerà mai da sola come per magia, è che forse quel giorno avevo solo bisogno di qualcuno con cui parlarne un po’, per sentirmi meno solo con le mie passioni, mentre le vivo e le faccio mie, mentre faccio saltare la valvola dei racconti. Fortuna che poi ho scoperto che avevi un newsletter e mi sono convinto che forse sarebbe stato bello seguirti.
Ti abbraccio,
Massimiliano.
L’amore non ha orecchie
Il titolo di questo pezzo non significa nulla e non è quello che volevo, ovvero fingere di essere l’ascoltatore dannato che segue artisti che non lo rispecchiano. Mi sono incastrato anticipandolo nella precedente newsletter e mi sembrava stupido cambiarlo in corso. ma non c’è da disperare, comunque, perché tanto sto per scrivere di Kanye West e quindi va bene tutto, specialmente le cose insensate.
Il 10 febbraio è uscito Vultures 1 di Kanye West e Ty Dolla $ign, primo album del duo che molti hanno accolto semplicemente come “l’ultimo album di Kanye”. L’ho ascoltato subito, mi piace quasi tutto e mi sembra comunque un passo avanti rispetto alle due ore e undici minuti di dilaniamento di palle di Donda. Tutto ciò acuisce il fatto che io mi senta esageratamente in colpa quando ascolto Kanye West, perché è diventato un essere ributtante, uno che ha fatto il turn heel3 in pieno ed è diventato una feccia delirante. Io con questo tizio non ci andrei nemmeno a prendere un caffè e non starò qui a farvi l’elenco di tutte le cazzate anzi no, lo devo fare, perché mi fa spanciare:
è un repubblicano convinto e sostenitore di Trump;
è contro l’aborto ed a favore del rafforzamento della preghiera scolastica;
è ammanicato con attivisti di estrema destra;
si autodefinisce nazista e innamorato di Adolf Hitler;
è un negazionista dell’olocausto;
è favorevole al possesso e all’uso di armi da fuoco;
ha sostenuto Bill Cosby durante il processo per molestie sessuali;
ritiene che l’AIDS sia un problema esclusivamente africano;
è misogino;
ritiene che la schiavitù degli afro-americani sia stata una loro scelta;
sostiene in maniera poco velata il Ku Klux Klan.
Eppure eccomi qui: a quindici anni ho ascoltato per la prima volta l’album The College Dropout e da quel momento, ininterrottamente e per oltre dieci anni, ho fatto mia ogni sua produzione possibile. Kanye West, secondo me, ha permesso di capire che oggi c’è musica in ogni cosa, negli audio su Whatsapp, nelle canzoni della chiesa e nei campionamenti minuscoli di cose prodotte ottanta anni fa ma questo solo fino a un certo punto della sua carriera, poco prima di diventare un freak incredibile.
A seguito dell’uscita di Vultures 1, il duo ha organizzato una roba chiamata Listening Party, praticamente mettere gente dentro a un palazzetto ad ascoltare musica, mentre i due cantanti gironzolano per il parterre assieme ad alcuni performer. Non c’erano microfoni, nessuno ha cantato, solo musica pompata nell’impianto del palazzo e gente che faceva video e aveva pagato tra i 100 e i 150 euro.
Prima di dirvi cosa ne penso voglio riportarvi due pareri agli antipodi, presi da due amici che sono stati alle tappe italiane di Milano e Bologna a febbraio. Il primo è l’amico Daniele, con cui ho discusso per oltre un’ora sul tema:
Sono stato al live di Bologna e avevo già visto alcuni video e letto commenti sulla tappa di Milano. All’inizio mi sembrava una grande cazzata ma poi, una volta lì, è stata una esperienza bellissima. Per me è forte vedere un’artista che si libera dai suoi doveri di performer e si dedica completamente ai fan, riducendo la distanza tra le parti e vivendo con loro l’esperienza. Sicuramente il prezzo è servito a fare una selezione oltre ad essere chiaramente provocatorio: se consideriamo il personaggio è immediato capire che ha settato uno standard che influenzerà le scelte di quegli artisti che vorranno fare qualcosa dopo. Sicuramente sarò abbagliato da tutto ma l’esperienza vissuta, i fan e la musica al centro dell’evento, la condivisione, sono stati una cosa incredibile.
Il secondo amico è invece Francesco, che è stato alla tappa di Milano:
Ci sono andato perché avevo paura di perdermi qualcosa di irrepitibile a pochi km da casa e perché c’era la possibilità di vedere dal vivo un artista che si esibisce pochissimo. Eppure, visti i soldi che ho speso, mi è rimasta addosso un bel po’ di amarezza, oltre a un certo straniamento nei confronti della hip hop community. Ascoltando questa musica ho conosciuto nuove persone, con gusti affini ai miei, ma in questo caso, per via di questa reazione completamente assurda del pubblico e di alcuni addetti, non mi sento più dalla stessa parte. È stato come essere allo zoo, con rapper americani famosi che sfilavano per farsi fotografare, separati da un vetro di duecento buttafuori. Spero che ‘sta roba raccapricciante non si ripeta più e fortunatamente entrambi gli eventi non sono andati sold out, anche se inevitabilmente hanno settato un nuovo livello, che ora coincide con “pagare tanto solo per vedere un cantante”. Non so, peggio di questa cosa c’è solo l’artista che non si presenta e manda un ologramma. Kanye ha celebrato la sua figura e la sua potenza, facendo leva sull’idolatria che ha costruito e i partecipanti sono rimasti pure soddisfatti. Sono preoccupato, perché ora aumenteranno i prezzi anche dei concerti normali. Dovremmo spendere i nostri soldi per vedere cose belle e questa non lo è stata, non mi ricordo praticamente niente di quello che ho vissuto.
A me suona ridicolo anche solo scrivere listening party. Aldilà del disincanto che provo nei confronti dell’artista, un cantante non può assolutamente esimersi dal cantare, è follia pura. Speriamo che il prossimo non sia Christopher Nolan. Kanye West ha indossato un passamontagna integrale, cioè non c’era nemmeno la certezza che fosse davvero lui. Non c’è nessuna provocazione nel prezzo, non c’è nessun messaggio da lanciare: West come tutti gli artisti è devoto al culto del denaro e ha semplicemente tirato su un sacco di soldi senza nemmeno dover fare l’unica cosa che sa fare. Ma poi, quale selezione? A Milano hanno cantato “Chi non salta è juventino” durante il live.
Bisogna smettere di credere che questi artisti siano lì per cambiare le cose o provocare. Quello che ho detto a Daniele è che è difficile seguire il suo discorso, perché non c’è nulla di nobile: ‘sta gente è stata in un palazzetto ed ha ascoltato musica, fine, come se io invitassi gente a casa per scoppiare le casse di mio padre ascoltando Antonio Panzarino. Non c’è nessuna connessione coi fan o altro e anzi la cosa peggiore è proprio il racconto mistificato fatto dai presenti, che avrebbero potuto semplicemente raccontare la bellezza nello stare assieme ascoltando la musica che ti piace e non arrampicarsi sugli specchi per giustificarsi. Era semplicemente un rito collettivo, una specie di messa, ecco.
La ghost track finale
L’Unione Sportiva Russi, squadra di calcio della rispettiva città, nel 2005 ha vinto il Trofeo Lealtà nello Sport, destinato alla squadra con il più alto punteggio tra quelle vincitrici delle coppe discilplina di serie D. Il premio era una super amichevole contro la Nazionale Italiana di calcio, che si stava preparando ai mondiali del 2006 ma quella partita si è giocata solo cinque anni dopo, nel 2010, sulla strada verso lo sciagurato Mondiale Sudafricano. A maggio, tremila sostenitori dell'US Russi abbandonarono le spiagge della riviera romagnola per salire al Sestriere, dove Lippi stava allenando i suoi: si giocò per trenta minuti e finì otto a zero per la Nazionale; Sky Sport andò con "L'Italia si fa al Sestriere, Azzurri pronti per i Mondiali" ma sappiamo tutti come andò a finire.
Nel prossimo numero: Speciale viaggio a Bologna, con Trent’anni di Forza Inter - Ma quale regola, ma quale Bologna - Purtroppo atterreremo e altre cose che mi verranno in mente.
Vi mando un abbraccio, ci sentiamo tra alcune settimane!
questo come quel mio amico, Davide, che credeva che feat. fosse un cantante che faceva un sacco di canzoni;
se ci fosse finito qui mio padre avrebbe commentato “Ecco nah, ecco le multinazionali, che ti fanno il telefono e poi ti dicono di romperlo”;
nel wrestling, significa passare da essere un lottatore buono (face) a cattivo (heel);
Ora non riesco a levarmi dalla testa l'immagine di sbattitori di Redmi appena pescati al Porto Vecchio di Bari.
Quanto al Russi, pensavo ti risuonasse come squadra avversaria del Vodafone Cervia nel talent/reality Campioni, ma a quanto pare almeno tu forse te lo sei risparmiato, saggiamente.
Mi sa che scrivere a Franco di videogiochi sta diventando una specie di moda nascosta, come quei secret club che trovi solo se sai già dove sono.