Piatto Unico (se gradito) #21
Smettiamo di abusare dell'avverbio "brutalmente", anzi impegniamoci a preservarlo, affinché possa prosperare come parola poco diffusa, tipo "percipiente".
Ben ritrovati a tutti!
Da bambino ero super-allenato per rispondere rapidamente a due domande che mai nessuno mi ha fatto: cosa ti fa più schifo e quali oggetti hai paura di smarrire? Non so spiegare precisamente perché ma ho covato per anni la speranza che qualcuno, da un momento all’altro, potesse chiedermi certe cose, forse per dimostrare di essere un bimbo con le idee chiare. Le risposte, comunque, erano il prosciutto cotto e il calcio per le cose schifose; gli occhiali e il Game Boy Advance per gli oggetti che tenevo sempre sott’occhio. In particolare per questi ultimi due, prima di dormire dovevo sempre verificare che fossero in un posto preciso, altrimenti non riuscivo ad addormentarmi; oggi questa cosa mi capita con le robe di lavoro e infatti una volta sono uscito da casa alle due di notte perché non ricordavo se un oggetto specifico fosse in ufficio o meno. Col tempo la risposta alle due domande è cambiata di continuo e se dovessi rispondere oggi, ad esempio, sarebbero i carciofi e il mare le cose che schifo, mentre le chiavi e gli occhiali sono gli oggetti da non perdere.
Mi pare di capire che sono molto, forse troppo legato ai miei occhiali e fa ridere che me ne rendo conto così, scrivendo questa intro. Effettivamente, semmai andassi anche solo un giorno al lavoro senza occhiali, sarebbe come spalancare le porte a un mal di testa di almeno una settimana, una condizione in grado di annullarmi totalmente. Recentemente ho pure cambiato montatura e lenti, mandando in pensione un paio di occhiali comprato almeno otto anni fa. Forse anche di più, a pensarci bene. Sono quasi certo che avessero circa dieci anni, perché il vecchio paio l’ho scelto coi miei genitori, in quella fase della vita in cui sei abbastanza grande da poter fare qualcosa da solo ma ancora troppo piccolo per assumertene la piena responsabilità. Perché poi, comunque, li ho pagati io, ma i miei genitori volevano verificare da vicino che non facessi cazzate.
Tante avventure vissute assieme a quegli occhiali, tanti momenti straordinari: il primo giorno in palestra, l’incidente d’auto nell’estate del 2020, Gonzalo sorpreso a mangiarsi le stecche e poi quella volta in cui sono venuto a Bari a fare la visita medica per le Ferrovie dello Stato, dove avevo paura che mi rimbalzassero per la miopia e invece...
Dai, facciamo che questa è la volta buona che ve la racconto, in barba agli argomenti che avevo scelto, perché sennò la tengo sempre in canna, sto sempre a spoilerarla ‘sta storia e non la tiro fuori mai.
Inoltre, volevo darvi un’idea per un business, così se avete soldi da parte possiamo fare a società: tra qualche anno, meno di dieci sicuramente, inizieremo a leggere paper scientifici di dubbia affidabilità circa l’impatto sulla pelle dei liquidi per le sigarette elettroniche. Da quando ho iniziato a fumarli ho il viso sempre umido, come ricoperto da una patina, e questo vale anche per gli occhiali, che sono sempre unti. È oggettivamente impossibile pensare che tutte queste zaffate di glicerina vegetale e glicole propilenico ecco a voi lo scienziato non abbiano ricadute e quindi, se volete fare soldi come si deve, affiancatevi alla vendita dei liquidi per sigarette e tirate fuori un trattamento conservativo per viso e occhiali, come quelli che prima hanno inventato gli antinfiammatori e poi i gastroprotettori, o come la mia proprietaria di casa la deficiente che prima mi ha preso per il culo quando ha venduto l’appartamento e poi è tornata con la coda tra le gambe quando il compratore si è tirato indietro. Storia vera, incredibile.
Che deriva oggi, tutto perché perché ho letto su Reddit che il protagonista di Persona 5 indossa degli occhiali finti per sembrare più gentile e meno spigoloso, considerato che la trama racconta di lui che si è trasferito in una nuova scuola a seguito di problemi con la legge. Sembra come quegli amici che hanno comprato gli occhiali finti all’Autogrill, così da potersi dare un tono, e poi mi ha ricordato che quando penso a cosa scrivere nell’intro della newsletter sono solito pulire gli occhiali, come se mi aiutasse a trovare l’ispirazione. Pensa tu che processo logico accurato, certe volte mi sembra di scrivere come George Best viveva la sua vita. Vabbè, tanto fino a quando non vi chiedo soldi sto coperto.
Buon appetito!
Di che colore è la delusione? (io non saprei distinguerlo)
Anno domini 2019, prima settimana di settembre. Da un mese mi sono licenziato dal mio vecchio lavoro di impiegato, al culmine di una telefonata pirotecnica che ha stravolto la mia vita segnandomi per sempre: ero lì che guidavo col sole che tramontava alla mia sinistra e Ludovica accanto a me, di ritorno da una domenica al mare, quando il mio capo mi ha scritto per chiedermi di andare in ufficio il giorno dopo, ovvero il primo giorno delle ferie estive. Non ne avevo la minima intenzione, dopo otto mesi passati a prendere la metà di quanto pattuito, così ho risvegliato la volpe a nove code e sono passato all’attacco. Abbiamo litigato al telefono, semplice: io l’ho chiamato e lui si è immediatamente lanciato in una filippica di aggressioni verbali tipo fallito, bugiardo, ingrato, e mentre sentivo la terra sgretolarsi sotto i piedi mi sono sfogato strappandomi dalla testa le treccine alla Sean Paul, fatte per celebrare il primo mese filato di ferie della mia vita. Nei giorni immediatamente successivi, che poi sono quelli in cui realizzi poco per volta di non avere più un lavoro e che presto i soldi finiranno, ho capito di essere a un bivio oltre ad essere oggettivamente senza capelli: mi mancavano appena/comunque tre esami per finire un corso di laurea in Economia Aziendale che mi trascinavo appresso come un condannato ormai da sette anni e al tempo stesso tutto quello che avevo costruito era una mezza carriera in un lavoro che odio, ovvero il cameriere. Che bivio del cazzo, a ripensarci è come decidere tra un pomeriggio al centro commerciale o un’ora all’Agenzia delle Entrate.
Nel tentativo di procrastinare ogni scelta, ho canalizzato quel formicolìo di tensione preparando l’esame di Microeconomia, che ho passato simulando un pianto isterico davanti al professore1 e quindi gli esami mancanti diventano subito due. Incorniciata la botta di culo, mi metto a cercare offerte di lavoro sui vari siti bluff: mi va bene qualsiasi cosa, anche lontano da casa, dalla mia ragazza, dalle persone che amo, sono realmente disposto ad accettare qualunque lavoro pur mettermi alle spalle una spirale di negatività che mi sta risucchiando. Una mattina inciampo in una proposta di Mercitalia Shunting & Terminal, ramo di Ferrovie dello Stato che si occupa dei treni merci: cercano tre operatori polivalenti di condotta e manovra ferroviaria, praticamente quei tizi che spostano i treni merci all’interno delle stazioni, guidandoli fisicamente oppure coordinando le manovre a terra. Non ho nessun punto di contatto con questo ruolo, è un lavoro anni luce lontano da quello che immagino per il mio futuro e non sono così sicuro possa piacermi stare in mezzo ai treni col giubbotto catarinfrangente a fare “Vai! Vai! Vieni!”, ma parliamo comunque delle Ferrovie, la paga sarà sicuramente buona e quindi mi faccio avanti.
Mi candido e loro mi invitano al primo step del processo di selezione, un test scritto che si svolge al piano terra dell’Hotel Mercure Villa Romanazzi Carducci di Bari, il 13 settembre 2019. Se vi state chiedendo come faccio a ricordarmi tutto, la risposta è che semplicemente ho scoperto di aver conservato le mail. Nessun super potere, nessuna forza della disperazione. Sessanta domande in tutto, quaranta su temi generali e venti su robe di ingegneria meccanica, elettrica ed elettronica. Praticamente per passarlo dovrei trasformarmi in mio padre per dare fondo a tutte le conoscenze maturate in cinquant’anni di lavoretti vari. Inizio comunque a informarmi e a cercare materiale sui forum2, poi chiedo consiglio a un amico che lavora in Ferrovie e per dieci giorni studio i principali argomenti dando una lettura veloce. Capite bene quanto sia oggettivamente impossibile imparare qualcosa in così poco tempo, ma tanto non ho un cazzo da fare, quindi almeno faccio vedere ai miei che sono impegnato.
Vado a Bari con Ludovica quella mattina e una volta in albergo mi fanno accomodare in questa sala molto grande e accogliente, con una schiera di banchi separati. Siamo ottantasei ma solo quindici passano alla fase successiva, tipo Battle Royale. Due tizi ci introducono la mansione e chiariscono che i tre migliori alla fine dei tre step di selezione lavoreranno a Brindisi e prenderanno una paga base di 1.300 euro. Sembra di stare al bingo e quando nominano milletrecento euro sento il brivido che percorre la sala, piena di poveri sventurati come me che si stanno esaltando per uno straccio di stipendio e per un lavoro che forse odieranno per sempre. Il test è super complesso anche solo nelle modalità di compilazione, ma sugli argomenti generali vado spedito e su quelli tecnici qualcosa me la ricordo; finisco presto e me ne vado, abbastanza tranquillo, mentre gli altri ragazzi fanno comunella tra loro come quando finisci un esame universitario. Non sono teso, anzi mi sento sconfitto in partenza, ma tre giorni dopo ricevo una mail: sono arrivato quinto praticamente improvvisando.
Primo intervallo - Giocatori Giapponesi nr.1
Ho deciso di recuperare questo format che mi fa molto ridere e che tenevo sulla mia pagina Facebook. Si tratta di associare una parola o una frase giapponese, di quelle che solitamente si leggono su Instagram, a un giocatore di calcio preso totalmente a caso dai meandri dei miei ricordi.
La parola del giorno è: irusu, ovvero fingere di non essere in casa quando qualcuno bussa alla porta.
Il giocatore è Boško Janković, centrocampista centrale serbo che tirava certe perchie clamorose e che purtroppo credo di sia infortunato un centinaio di volte. È stato il primo giocatore di nazionalità serba nella storia del Palermo ed era specialista nella spojna, la trivela nella sua lingua. Grande feticcio della mia scuderia, era un giocatore totalmente inaffidabile, tanto fisicamente quanto per applicazione, eppure c’erano giorni in cui sembrava potesse vincere le partite da solo, scagliando sberle pazzesche da casa sua.
Il 23 settembre 2019, dieci giorni dopo il test, devo essere a Genova per il secondo step di selezione, il colloquio orale che a pensarci oggi, veramente, potevamo fare una call, un meet, un Zoom, no, dovevo andare proprio in Liguria nella loro stanzetta dei giochi. Intanto, non possiamo non registrare che ridendo e scherzando da un mese e mezzo e ho praticamente finito i pochi soldi messi da parte. Dopo tutti questi anni di autonomia economica provo troppa vergogna per chiederli ai miei o per parlarne con mio fratello, che sicuramente lo ha capito, quindi mangio la castagna e vado avanti senza spendere un euro nemmeno per il caffè. A Genova ci arrivo con un Flixbus pagato una miseria grazie ad Alessio, che lavora per l’azienda; una volta lì sono ospite di Cosimo, il fratello di un amico network di amicizie oggettivamente eccezionale, che mi consegna un mazzo di chiavi di casa sua e per cinque giorni mi mette a disposizione qualsiasi cosa. Dormo nel bellissimo salotto di casa, con un televisore gigantesco su cui finisco di guardare la seconda stagione di Boris; se mi affaccio dalla finestra vedo il mare e alle mie spalle c’è un quadro molto grande di Ernesto Che Guevara che fuma il sigaro. Mi sento a casa.
Il giorno del colloquio mi sveglio presto e prendo la corriera direzione porto, dove perdo almeno mezz’ora per trovare il palazzo di Mercitalia in via Scarsellini 119-Torre B. Il colloquio è tranquillo, di routine, e mi chiedono le solite cazzate, appunto, da colloquio, tipo cosa fai, dove ti vedi, quanto ti manca, quante ne sai, via così per una ventina di minuti. Poi una tizia si sveglia dal torpore del suo smartphone e mi chiede, con quella che sembra onesta curiosità, perché mi sono candidato pur non avendone le competenze e come ho fatto a realizzare un punteggio così alto non avendo conoscenze di base. Bella domanda, in pochi secondi penso “Ma cristo santo, sono senza lavoro da settimane, ho venticinque anni e mentre mi chiedo chi o cosa voglio essere da grande alla fine sto diventando grande veramente. Che sia stata la forza della disperazione a guidarmi? O magari la paura di essere una delusione totale? Lei che ne pensa?” ma alla fine me ne esco con la risposta di circostanza, evidenziando la “determinazione nel voler lavorare in una realtà così consolidata sul territorio nazionale”.
Finito il colloquio, compro un biglietto per l’Acquario di Genova, dove trascorro qualche ora estremamente felice: ci passo dentro molto più tempo del previsto, perdendomi in enormi vasche blu che approccio con lo stesso stupore dei bambini che mi circondano, forse perché dopo intere settimane sto staccando la spina per la prima volta; mi sembra di essere dentro a un video che ho visto mille volte su YouTube e lo spettacolo dei delfini mi riporta coi ricordi allo Zoo Safari di Fasano, quando la mamma e papà ci scattavano una foto all’ingresso mentre io e Andrea mangiavamo un panino con la frittata seduti vicini. Quella mattina pranzo con una bottiglia d’acqua e chiamo Ludovica mentre sono sul ponte di una nave attaccata all’Acquario; poi esco e passeggio, da solo, e finalmente mi scopro sereno, perché il colloquio è andato bene e le cose sembrano girare per il verso giusto. È una giornata bellissima, di cui ricordo tante cose, tanti piccoli momenti come il sole che tramonta in mezzo al mare, la panchina su cui mi sono seduto a fumare, i pensieri che ho scritto sulla mia agenda. Il giorno dopo ricevo l’esito del colloquio: sono il primo dei tre ammessi, il posto è mio.
Adesso rimangono due cose da completare: fare pace con l’idea di esser riuscito in qualcosa che mi sembrava impossibile e organizzarmi per le visite mediche. Ho un dubbio, sorto mentre ero a Genova e legato alla mia leggera miopia: ad eccezione dei ruoli da impiegato, FdS è una azienda famosa per essere costantemente alla ricerca delle persone con la miglior vista sulla superficie terrestre, manco dovessero assumere dei cazzo di cecchini. Questo sbarramento avviene durante la visita medica di rito ed ha dato vita a un vero e proprio business degli interventi chirurgici alla vista: chi va alle visite ed è sicuro di non essere idoneo, si cautela prenotando un intervento che nel 2019 costava tra i sei e gli ottomila euro se fatto con urgenza; quindi vai alla visita, non sei idoneo, ricevi l’esito via posta e presenti ricorso e da quel momento hai un paio di settimane per operarti, convalescenziarti e sostenere una seconda visita presso la sede centrale di Roma. Pensandoci bene, ha tutto perfettamente senso: fai un investimento economico importante ma hai la certezza di recuperarlo nel giro di un paio d’anni di stipendio. Io in quell’occasione ho chiamato Pierpaolo, il mio ottico, e insieme ci siamo accordati su cosa fare nel caso in cui.
Rientrato a Francavilla, mi sono accorto di essere finalmente su di giri e di aver sognato tantissime cose in pochissimo tempo, di aver nuovamente ripreso a immaginare la mia vita futura in modo diverso, mettendo finalmente le cose a posto. In fondo, il peggio era passato e ora si trattava semplicemente di prendere parte a delle normali visite mediche, poi farsi sei mesi di formazione a Genova e alla fine iniziare a guadagnare un po’ di soldi. Una sera, mentre sono con i miei amici, tiro fuori il racconto di Genova e del colloquio e in quell’occasione il caro Oronzo commette il grave errore di dare tutto per fatto, pronunciando la fatidica frase “Cosa si prova ad aver svoltato?”. Mai dare le cose per finite, è il primo passo verso la distruzione totale.
Secondo intervallo - Il maestro indiano di Carrom
Volevo condividere con voi un importante traguardo: sono ufficialmente diventato un discepolo del maestro Haji Ali Agariya, probabilmente il miglior giocatore di Carrom al mondo. Ci sono riuscito dopo aver guardato qualcosa come trecento video tra Instagram e YouTube, un risultato reso ancora più straordinario dal fatto che non ho ancora acquistato una Carrom board, anche se temo che succederà a breve.
Il maestro Agariya, che da poco ha sfondato quota 3 milioni di iscritti anche su YT, è conosciuto semplicemente con lo pseudonimo di Carrom king, per via della sua incredibile abilità nel famoso gioco da tavolo indiano, dove lo scopo è quello di imbucare le proprie pedine nei quattro angoli usando un dischetto da spingere con le dita. È una roba a metà tra il biliardo e l’air hockey, ecco. Vedere in azione il maestro è uno spettacolo unico, perché ha un talento naturale per questa disciplina, oltre ad essere un uomo oggettivamente affascinante. E poi ha due abitudini incredibili: la prima è quella di far rimbalzare la sua pedina contro uno dei bordi prima di ogni tiro, come se dovesse ricalibrare ogni volta la potenza; la seconda è quella di chiedere al suo avversario di rimandargli la sua pedina picchiettando fastidiosamente le dita sulla plancia di gioco. Ma poi i capelli e i baffi da rockstar, questa stanza con una sua gigantografia alle spalle, gli avversari che sono quasi sempre in ciabatte o a piedi scalzi, le partite che si giocano in ambienti oggettivamente lerci e pieni di sporcizia a terra, che spiccano ancora di più se confrontati col suo candore, con gli abiti sempre immacolati. Il Biagio Antonacci indiano.
Siamo arrivati all’atto finale e ormai avrete capito che le cose prenderanno una piega inaspettata. Bisogna solo capire che tipo di piega sarà.
Alla vigilia delle visite mediche, per poter essere in orario all’appuntamento, vado a dormire a Conversano, un paese a dieci minuti d’auto da Bari. Qui sono ospite di Domenico e Antonio, due amici che hanno fatto l’Università a Bari e che ora sono qui per lavoro. Ci conosciamo ormai da tanti anni ma è la prima volta che vado a trovarli nella loro casa. Appena arrivato fumo una sigaretta con Antonio sul balcone facendo discorsi filosofici e poi mi fanno visitare la casa: c’è un lenzuolo appeso agli armadi, usato come sfondo per il proiettore, e c’è anche quella PS4 PRO con gli sticker di Star Wars che Antonio mi venderà qualche mese dopo. Sembra una normale casa di studenti universitari e mi fa sorridere ripensare oggi a quella serata, perché l’azienda per la quale lavoro dal febbraio 2022 è la stessa di Domenico, che mi ha combinato un colloquio; quando sono arrivato a Bari, per le prime due settimane sono stato nuovamente ospite di Antonio e Domenico. E basta, volevo creare l’effetto corsi e ricorsi storici, forse mi è venuta male.
La mattina dopo arrivo in perfetto orario al centro medico di Reti Ferroviarie Italiane, parcheggiando in un posto dove teoricamente non potrei, a metà tra un passo carrabile e un cantiere. Arrivo in loco, faccio il check-in e mi metto ad aspettare, uscendo ogni tanto per una sigaretta. In una di queste pause conosco un ragazzo biondino che ha qualche anno in meno di me e che sul mio telefono è salvato ancora come Amico Ferrovie: è uno degli altri due che hanno superato le selezioni come me, arriva dalla Campania e sembra un perfetto imbecille. È terrorizzato dall’idea che possa non passare le visite per problemi con le analisi del sangue, perché ha l’abitudine di fumarsi una carriola di canne al giorno e teme vabbè è scemo veramente che questo possa venire fuori dalle analisi. Fa anche la finta di chiedermi di fare la pipì nel suo contenitore per le urine come se stesse scherzando, il cornutazzo. A differenza mia, lui è preparatissimo su quella che sarà la nostra vita, perché il padre lavora già per Ferrovie e gli ha anticipato quello che faremo al corso, cosa ci insegneranno, di cosa ci lamenteremo per tutta la vita e quanto pagheranno il biglietto del treno i nostri figli. Insomma ha studiato.
Il centro medico di RFI funziona che tu ti registri e poi vieni chiamato a intervalli per sostenere le diverse visite: a ognuna di queste corrisponde una stanza, quindi come alle poste la gente sta seduta, si alza quano compare il numero a schermo e poi torna a sedersi in attesa della prossima chiamata. E così ho fatto: prima le urine e torno seduto; poi il prelievo del sangue e torno seduto; poi la psicologa (che in realtà erano dei giochini al PC) e torno seduto. Poi mi chiama l’oculista e arriva il momento della verità. Mentre vado in stanza ripeto mentalmente il copione preparato con cura: entro, salve buongiorno a lei, subito consegna degli occhiali come a mettere le mani avanti. Lei analizza le lenti con un macchinario e intanto mi fa le solite domande: mi leggi queste lettere? Guardi in questo aggeggio? Cosa c’è? La vedi la mongolfiera? Signor Chirico, abbiamo finito, tutto ok. È fatta, anche l’ultimo scalino è superato, sono dentro.
Esco fuori dal centro medico e istantaneamente chiamo la mamma, papà, Ludovica e poi scrivo ai miei amici. È finita, non mi hanno rimbalzato, non ci credo. Finalmente posso rilassarmi, così ne approfitto per andare a controllare la macchina in modo da controbilanciare subito le cose felici col pensiero “Ok, mi hanno portato via l’auto sicuro”. Mentre cammino sono di nuovo leggerissimo, praticamente sto pattinando sul marciapiede: ripenso a tutta la sofferenza delle ultime settimane e a come sia scomparsa, di colpo, soppiantata da una bellissima notizia. In quel momento non lo so ancora ma sta per iniziare una terribile concatenazione di eventi.
A metà strada mi chiama Amico Ferrovie perché è arrivato il mio turno per la visita medica generale. Sono abbastanza vicino alla macchina e quindi metto a correre, controllo che sia tutto ok e torno indietro, facendomi dieci minuti di corsa come un pazzo. Entro nello stanzino della dottoressa che sono fradicio di sudore e ho il fiatone, ma lei è gentilissima e mi lascia il tempo di darmi una rinfrescata e cambiarmi la maglietta. Via con l’elettrocardiogramma: valori un po’ anomali ma sarà perché hai corso, comunque nessun problema. Poi mi fa spogliare e inizia a controllarmi ogni lembo della pelle: quando arriva ai piedi gioco stupidamente d’anticipo e le faccio presente che le cicatrici alle caviglie (ormai impercettibili) sono per un problema di piattismo operato chirurgicamente anni fa. Benissimo signor Chirico, domani bisogna portare della documentazione integrativa attestante l’assenza di problemi motori. Che imbecille.
Mi rivesto e mi accomodo alla scrivania, mentre lei compila dei documenti facendomi delle domande. A un certo punto mi allunga distrattamente un libricino marrone, rimanendo però concentrata sui fogli che sta riempendo di dati: lo apre goffamente con una sola mano e mi chiede di leggere il numero sul foglio. Non c’è nessun numero e quindi sparo a caso Sette. Non so perchè, ma in quel momento sono assolutamente convinto che semmai ci siano veramente dei numeri, possano essere solo da 0 a 9; lei allora gira un’altra pagina e qui il numero lo vedo e dico subito Sei; poi ancora un altro e qui non vedo un cazzo di nuovo e allora Otto. Finalmente distoglie lo sguardo dai suoi fogli e si mette a fissarmi: pausa scenica, poi mi fa Aspetta un attimo mentre esce dalla stanza. Rientra poco dopo assieme a un dottore pelato che inizia pure lui a compilare fogli; lei ha cambiato totalmente atteggiamento e sembra intenzionata ad attirare tutta la mia attenzione, quindi mi rimette questo libricino davanti e mi fa Leggi tutti i numeri a partire dalla prima pagina. E vado.
Dodici cazzo ma quindi sono a due cifre.
Otto ah vabbè non tutti.
Sei.
Ventinove.
Cinquantasette.
Cinque?
Tre?
Quindici?
Settantaquattro?
Due???
Sei????
No qui non vedo niente.
Qui nemmeno.
Cinque?
Sette?
Signor Chirico si fermi, lei è daltonico.
Colpo di scena! Ho scoperto di essere daltonico così, a venticinque anni e durante una visita medica del cazzo, mentre mi giocavo il primo stipendio serio della mia vita. A conti fatti, credo di essere realmente daltonico: già qualche anno prima avevo notato alcune difficoltà nel riuscire a indicare correttamente il colore di qualcosa ma è una di quelle robe a cui non presti attenzione, tipo che scambi arancione con giallo e qualcuno ti prende per il culo. Invece la situazione è seria: non riesco a distinguere le sfumature, in particolare sull’asse rosso-verde e nel mio lavoro di oggi, per fare un esempio, vado in difficoltà con quei fogli excel con tanti colori diversi a indicare differenti situazioni. Il daltonismo si scopre come la miopia, non c’è un test che restituisce un esito preciso, come il prelievo del sangue. Il medico fa dei tentativi e sulla base delle risposte determina il risultato. Inoltre non è riconosciuta come malattia invalidante, nonostante chi è affetto da daltonismo non possa far parte delle Forze dell’Ordine papà avevo ragione io che non ero portato a fare il finanziere o pilotare veicoli, che siano pubblici o privati. Ma soprattutto non si può curare, al massimo ci sono delle lenti con filtri che attenuano la situazione, ma a livello chirurgico non si può fare niente.
Le tavole di Ishihara però, quelle nella foto, sono universali e sono le trentotto che vedete sopra. A saperlo prima avrei potuto imparare a riconoscerle memorizzando i numeri: oggi lavorerei alle Ferrovie già da dieci anni se avessi fatto questa cosa, che è un po’ come copiare ai concorsi pubblici. Invece niente. Respinto. Il viaggio di ritorno è stato un po’ come scendere agli inferi a fare i conti coi miei mostri. Viaggiavo da solo e a una certa, dominato totalmente dallo sconforto, mi sono fermato a mangiare qualcosa in una stazione di servizio. Non riuscivo a smettere di fumare e dannarmi l’anima, ripensando a come le cose siano capitolate drasticamente nel giro di un quarto d’ora. Mentre ricomponevo gli eventi, ho realizzato di aver parcheggiato davanti a una statua del Cristo Redentore piazzata nella stazione, che mi guardava a braccia aperte, un po’ per abbracciarmi e un po’ come a dirmi “Ragazzo mio però che cazzo tutte a te succedono”. Non ci volevo credere. Dopo tutto quello sbattimento mi restava un pugno di mosche, avevo speso tantissimi soldi inutilmente e mi ritrovavo con un problema in più rispetto a quando sono partito. Solo molti anni dopo sono riuscito a fare pace con questa storia ed è successo parlandone con Ludovica e chiedendole scusa per quei mesi trascorsi a passeggiare in giro senza poterci fermare per mangiare qualcosa, senza la tranquillità nel mettere dieci euro di benzina nella macchina per andare al mare. È sbagliato sentirsi in colpa per certe cose ma questo l’ho capito solo dopo.
Oggi rido di questa storia e la racconto spesso, è un po’ il mio cavallo di battaglia perché parte con la delusione del licenziamento e finisce bene, con la delusione del concorso. Alla fine concludo sempre con le parole che la dottoressa mi disse subito dopo la visita, nel tentativo di consolarmi. Me le ricordo ancora, erano più o meno queste:
Massimiliano, ti do del tu. Lo so cosa stai provando in questo momento. Stai pensando che l’occasione della tua vita ti è stata sottratta ingiustamente e pensi che le cose andranno male per sempre. È brutto scoprire così di avere questo problema ma tu sei daltonico, su questo non ci sono dubbi, e fare questo lavoro potrebbe essere un problema per te. Immagina una mattina, col sole dritto sul semaforo3 e tu che non riesci a distinguere di che colore è: magari pensi sia verde, fai andare il treno e succede un disastro, qualcuno si fa male, magari ci scappa il morto.
Fidati, è meglio che le cose siano andate così. Per la tua vita futura è meglio così, e un giorno sarai felice di non aver avuto questo lavoro e ci ripenserai facendoti una risata.
Ou, aveva ragione.
mi aveva messo 16 e sapevo che non ne sarei mai venuto fuori se fossi tornato a casa bocciato, quindi mi sono messo a fingere una vita distrutta da eventi incredibili, nella mia testa scene tipo il Vietnam, ma in realtà stavo solo attingendo al malessere che avevo dentro;
ecco, questa è una cosa molto curiosa: i forum sono uno strumento che va ancora fortissimo per coloro che preparano i concorsi pubblici;
i semafori dei treni non hanno tre luci, come quelle normali, ma una sola che si accende di rosso o di verde. Quindi capire il colore non diventa più un discorso di posizione ma consiste esclusivamente nel leggere il colore che si accende;
Ogni tanto mi scordo di leggere le puntate e quando poi, invece, mi ricordo, scatta sempre un applauso. Complimenti!
La scoperta (o meno) del daltonismo, ma anche il conviverci, sembrano sempre essere accompagnati da aneddoti notevoli, come questo.
Io il daltonismo l'ho fugato ai tre-giorni del militare (madò, che vècio!), ma non riesco a dimenticare il fulmineo dialogo, ovviamente svoltosi nel clima orribile di quel momento:
"Leggi i numeri sulla scrivania"
"Quali numeri?"
Fine.