Piatto Unico (se gradito) #24
Secondo voi le graffette sono più utili per tenere insieme i fogli o per giocarci piegandole in ogni direzione fino a spezzarle in pezzi più piccoli? Ma come cristo mi viene in mente, non lo so.
Bentrovati a tutti con Piatto Unico, la newsletter che, a dispetto del nome, sta al cibo come “il pulviscolo sahariano portato dalla pioggia” sta alla carrozzeria della mia Ford Ecosport. Ora sto pensando a quanto mi indispone il mio autolavaggista di fiducia che mi fa sempre la stessa battuta mentre tira fuori dall’officina il macchinone di un altro dicendomi “Eccola, la Ecosport lavata sembra un’altra macchina”. Zelig.
Comunque io sono Massimiliano, ho trentuno anni, vivo a Bari e in questo arco narrativo della mia vita, che per comodità chiameremo “Saga del Matrimonio di mio fratello” sono costantemente impegnato a ricondurre determinati atteggiamenti o pensieri che mi contraddistinguono a traumi della mia infanzia o adolescenza, arrivando quasi sempre alla conclusione che “è a causa di mia madre/mio padre” e badate bene alla differenza tra causa e colpa. Ma alla fine che c’entrano loro, del resto nessuno ti insegna il ruolo del genitore, così come quello del figlio, del coinquilino o del collega di lavoro. È tutta strana questa Saga, comunque. Piena di domande introspettive, momenti di solitudine. Mentre si svolge ho sempre l’impressione di perdermi qualcosa, sento i miei pensieri che volano a velocità supersonica e mi sembra di essere costantemente altrove, come se la mia testa non fosse effettivamente nello stesso punto in cui si trova il mio corpo, come se piano piano mi stessi allontanando da qualcosa che non riesco a definire. È una sensazione nuova, difficile da spiegare e per questo non proverò a farlo, anche perché non parlo di cose che non conosco.
Ma passiamo a cose più divertenti. Come anticipato nella precedente puntata, oggi mandiamo in soffitta anche la terza stagione di questo imperdibile appuntamento del venerdì e nel farlo festeggiamo con un video che mi piace un sacco!
Chi razzola da queste parti sa bene come il fantomatico finale di stagione sia in realtà la mia mossa di Naruto per eccellenza, un sinergico movimento di mani che produce un po’ di fumo negli occhi: in principio, quando riuscivo a pubblicare una volta a settimana, era il modo più efficace per prendermi qualche giorno di pausa; adesso pubblico quando mi pare e piace e quindi celebrare le ultime otto puntate è diventata una presa in giro del tutto irrilevante. Una tradizione, ecco. Ma come dice sempre mio padre, “le tradizioni sono l’unica cosa che ci è rimasta”. Io non sono sicuro di aver inteso cosa significhi, ma ormai papà ha più di sessant’anni e il frame in cui potevo capire perfettamente i suoi pensieri è bello che andato. Nel dubbio, tanto vale continuare a preservare questa abitudine, che poi magari ci arriverò tra una ventina d’anni anche io.
Un’ultima cosa però voglio aggiungerla: grazie. Inconsapevolmente e spesso involontariamente, le attenzioni che mi avete dato, i commenti e le interazioni che sono nate dalla mia newsletter, mi hanno reso molto felice e mi hanno permesso di pensare meglio a tante cose che mi riguardano. L’altro giorno il mio amico Cosimo mi ha scritto, chiedendomi di raccontargli la roba della rapina che avevo accennato la scorsa volta: io manco sapevo che mi seguisse qui, mi ha fatto molto piacere e gli ho droppato un audio di cinque minuti. E poi mi ha detto “Non me l’avevi mai raccontato, eppure di storie me ne hai dette un sacco!” e se solo me le ricordassi, avremmo cose di cui parlare per molti mesi.
Scrivendo Piatto Unico continuo a mettere in fila pensieri e ragionamenti che solitamente faccio alla velocità della luce in quei momenti dove voglio stare un po’ per i cazzi miei: mettere tutto per iscritto mi permette di riavvolgere il nastro, di riflettere e di venire a capo di alcune cose. Ma soprattutto mi permette di fare pace con me stesso, di non colpevolizzarmi più per cose che ormai appartengono al passato e di godermi un po’ di più quello che ho fatto finora della mia vita. Che poi è letteralmente nulla se escludiamo aver giocato/finito un quantitativo di videogiochi surreale.
Buon appetito!
Il sorprendente dono di tenere insieme le persone
Avete mai letto qualcosa sulla figura di Atlante? Gesù, io sono in fissa da settimane ormai, non riesco a uscirne. L’altro giorno in spiaggia ho avuto un’epifania mentre mi cucinavo sotto al sole della prima domenica di mare dell’anno: ho pensato di tatuarmi questa illustrazione qui sopra, per dire, ma poi mi sono ricordato di essere un uomo molto peloso quindi non si vedrebbe niente. Facciamo così: prima vi spiego perché ci penso un sacco e poi vi racconto chi era Atlante. Anzi no no, facciamo al contrario, che forse viene meglio.
Nella mitologia greca, quella parte della letteratura che esiste solo se hai avuto la sfortuna di frequentare il Liceo Classico, Atlante era uno dei Titani, per definizione forze primordiali del cosmo, che imperversavano sul mondo prima dell'intervento regolatore e ordinatore degli dei olimpici, tipo Jury Chechi. Mi viene facile immaginare i Titani come esseri con fattezze terribili e forza spropositata, praticamente come in Hercules della Disney, ma in realtà Atlante pare fosse un bell’uomo, forzuto, coi capelli ricci e la barba ispida. In quanto Titano, prese parte alla Titanomachia, una guerra epica che vide scontrarsi da una parte gli dei dell’Olimpo, capitanati dall’irriducibile Zeus, e dall’altra i Titani, gli outsider insomma, capeggiati da Crono, padre di Zeus. ‘sta guerra durò dieci grandi anni, ovvero il tempo che l’asse terrestre ci mette per fare una cosa che non sto qui a spiegare: per darvi un idea vi posso dire che, se calcolata in anni normali, la guerra è durata duecentocinquantamilasettecentosettantadue anni e che alla fine gli dei olimpici ebbero la meglio. Accusato di lesa maestà, Atlante venne obbligato da Zeus stesso a tenere sulle spalle il mondo intero, una rottura di palle catastrofica a pensarci bene, ma comunque una roba onorevole, perché avrebbe potuto fargli fare mille altre cose più stupide. Portare il mondo sulle proprie spalle è quello che penso di me ogni venerdì quando esco dall’ufficio e immaginare un Titano mentre lo fa mi dà l’idea di qualcosa di enorme responsabilità.
Ritornando a noi. Come vi dicevo in intro, nel momento in cui vi scrivo mi trovo nella coda dell’arco narrativo del matrimonio tra mio fratello e Giada, sua moglie. Pazzesco, l’ho scritto per davvero. Nelle settimane che hanno preceduto il matrimonio, la battuta più ricorrente nel nostro gruppo era tipo:
“Massimilià, ma tu sei il testimone di nozze di tuo fratello?”
”No”
”Hahahahah, si si, sicuro”
”No, veramente, sarà un suo amico d’infanzia”
”Hahahahaha, si si va bene”
Domanda lecita, per carità. Come ho raccontato altre volte, io e mio fratello condividiamo un legame speciale (almeno per noi), che si è cementato negli anni grazie al tempo trascorso assieme al lavoro o organizzando cose o confidandoci le nostre paure o dormendo assieme anche a trent’anni, come quella volta nella sua stanza a Torino, la sera di Halloween, in cui abbracciarsi sembrava la cosa più normale. Si capisce che un po’ me lo aspettavo di essere L’ELETTO, IL PRESCELTO, IL PROTETTORE DEL SACRO VINCOLO DELL’UNIONE e alla fine lo sono stato sul serio anche se l’ho scoperto letteralmente venti secondi prima dell’inizio della cerimonia, con mio fratello che ha coronato una gag partita praticamente un anno fa e che consisteva, appunto, nel farmi credere che non sarei stato THE CHOSEN ONE, L’ULTIMO BASTIONE, IL TESTIMONE.
Vabbè, ero proprio certo che mi avrebbe chiesto di farlo perché si è anche un po’ tradito nell’ultima settimana. Data questa sicurezza, ho passato i giorni immediatamente precedenti a immaginare quello che avrei potuto dire semmai mi fosse stato chiesto di spendere due parole. Sono cose che capitano durante un matrimonio e poi sono uno che spesso si immagina a tenere lunghi discorsoni pieni di frasi a effetto e chiusure da applausi davanti a un sacco di gente. Sarò anche introverso con gli sconosciuti ma una parte di me brama costantemente di parlare alle folle tipo Martin Luther King. Poi è successo per davvero e alla fine ho parlato di Atlante e la cosa che mi fa più ridere è che, alla vigilia del matrimonio, mio fratello ha spiegato a mio padre i confini tra Israele e Palestina usando un atlante che avevamo in casa, un libro che usa solo lui.
Ho avuto pochi soprannomi nella mia vita e nessuno si è mai impegnato davvero nel darmeli. Da piccolo, in casa, mi chiamavano Memi, un nomignolo che papà aveva inventato unendo quattro lettere prese da Massimo e da Emiliano. Poi nulla di rilevante fino a Massimo Due Tocchi, che mi sono dato da solo e che non usa praticamente nessuno. Non che la cosa mi disturbi, perché in realtà il mio desiderio è sempre stato quello di portare un soprannome inventato da qualcun altro, magari qualcosa figlio di alcune mie caratteristiche particolari, ma quando a casa hanno iniziato a chiamarmi il Professorone, perché sono solito citare nei discorsi qualcosa che ho letto o studiato, ho preferito non averne. In cambio però, mi sono sfogato su mio fratello, e ho iniziato a fabbricare un soprannome per ogni cosa. Credo di essere molto bravo in questo, ve ne riporto alcuni a titolo esemplificativo:
Dargen Nemico
La prima lettera dell’alfabeto (soprannome di Giulio Andreotti)
Sudamerica
Mio Fratello Neomelodico
L’Apache che racconta dal Buen Retiro
Che bella faccia
Stupido Hotel
Ora ci ho aggiunto anche Atlante. Come ho spiegato ai presenti quella sera e che sera, Atlante richiama un potere che gli invidio molto, quello di riuscire a tenere insieme persone tanto diverse tra loro. Questa cosa delle persone diverse bisogna spiegarla, sennò domani subito a Propaganda con la band che strombazza in sottofondo: col tempo ho realizzato che, in quanto esseri umani, tendiamo a rifugiarci dietro ciò che ci caratterizza, sfruttando il contesto da dove veniamo come scudo: mi capita spesso di parlare con gente che si sottrae a una discussione perché “no no, io mica ho finito la scuola, io non ne so niente” oppure perché “no, da dove vengo io certe cose non esistono, non so di cosa si parla”. Anche io lo faccio, specie se sono costretto ad ascoltare qualcuno che si mette a ostentare un certo stile di vita, a sventolare vacanze da sogno, serata in locali esclusivi della provincia di Lecce e case al mare dall’improbabile almeno per me bellezza e utilità.
Ecco, durante il matrimonio c’erano persone estreamente diverse tra loro, che hanno vagato tutta la sera in balìa della gioia e del buon vino, associandosi di tanto in tanto con altri sconosciuti in base alla propria estrazione sociale, alle abitudini o ai luoghi frequentati più spesso. Forse nessuno di noi rinuncerebbe a tutto questo, a essere identificato per quello che rappresenta: credo che alla base ci sia proprio quel profondo disagio che proviamo quando ci sentiamo fuori luogo, non adatti al contesto in cui siamo, o peggio ancora il disgusto che ci portiamo a letto dopo una giornata passata a fingere di appartenere a qualcosa che non si conosce, che non è tuo, che arriva da un’altra dimensione.
Mio fratello ha la straordinaria capacità di spezzare quel disagio tenendo insieme persone diverse, una skill che è figlia del dono di sapersi mimetizzare in contesti straordinariamente differenti. Negli anni l’ho visto parlare/mangiare/uscire praticamente con chiunque, dai vecchietti che passavano le giornate davanti al bar ai tizi poco raccomandabili della nostra città: in ogni occasione è sempre stato dannatamente a suo agio ed è sempre riuscito a esser diretto nei confronti di chi aveva davanti, a rompere il dubbio che fosse tutta una presa in giro e lo ha fatto riuscendo a essere semplicemente se stesso anche fuori da quello che è il suo habitat. Io non ci riesco manco per un cazzo e infatti faccio sempre la figura tipo quelli di Smetto quando voglio che fingono di non avere una laurea parlando in dialetto, salvo poi uscirsene con “si si, contestualmente a quanto detto”; a lui invece viene naturale, chi lo conosce si mette a seguirlo proprio perché riesce ad apprezzare questa capacità di essere sempre quello giusto con cui parlare. Quindi Atlante, il Titano che sorregge il mondo, che tiene le persone unite nello stesso posto, evitando che si mettano a rotolare da tutte le parti, ognuno per i cazzi propri. Quanto glielo invidio, bastardo.
La straordinaria voglia di organizzare cose
Qui vado lungo, fate una pausa prima.
Tra tutti i soprannomi ho sempre avuto un debole per Sudamerica, un’unica parola in grado di raccontare tutto. L’idea mi è venuta da una canzone di Paolo Conte, scoperta grazie al racconto di Federico Buffa circa i Mondiali di calcio del 1950.
L'uomo ch'è venuto da lontano
Ha la genialità di uno Schiaffino
Ma religiosamente tocca il pane
E guarda le sue stelle uruguaiane
Sudamerica per me significa “fare cose apparentemente senza alcun senso, che sfuggono alla logica comune, come i sudamericani”. Lungi da me azzardare mezza critica contro anche solo uno dei popoli straordinari che abitano il Sud America, ma sono sicuro che ogni lettore appassionato di calcio saprà bene quanto possano essere indecifrabili gli sportivi che arrivano da quelle terre. Le loro storie riescono ad essere tutte incredibilmente uniche e tutto ciò che hanno compiuto nella loro vita, tanto in campo quanto fuori, esula quasi sempre dalla nostra capacità di comprensione.
Facciamo un esempio pratico di calcio e prendiamo la Copa Amèrica, l’equivalente sudamericano dei nostri Europei di calcio: già il nome trae in inganno. Guardando la lista delle nazioni che vi hanno partecipato, salta subito all’occhio la presenza, totalmente a caso, di Giappone e Qatar, oltre a quelle dubbie ma sicuramente più digeribili di Haiti, Jamaica, Stati Uniti e Messico. Quest’anno ci sarà anche il Canada e i messicani, per esempio, hanno giocato così tante edizioni da riuscire a raccogliere più punti del Venezuela. Capite bene che, per un torneo che promette di essere la competizione di riferimento per le nazionali sudamericane, la presenza di squadre asiatiche è totalmente out of context; per fare un parallelo, sarebbe un po’ come far partecipare Israele agli EuropNO NO NO NO scherzavo.
Ma ancora, prendiamo questa volta gli anni in cui si sono disputate le ultime edizioni di questo torneo: 2001 - 2004 - 2007 - 2011 - 2015 - 2016 - 2019 - 2021 - 2024. Non si è mai capito quando cazzo si gioca, non c’è una cadenza fissa e semmai ci fosse serve solo ad essere costantemente tradita. Addirittura nel biennio 15/16 si è giocato per due anni consecutivi, perché nel 2016 cadeva il centenario della competizione e ti pare che quelli se lo facevano sfuggire così? Ma zero proprio, i sudamericani decidono arbitrariamente. Oltretutto l’edizione dei cent’anni era percepita in modo così evocativo, al punto che è stata disputata interamente negli Stati Uniti, in barba a qualsiasi rivendicazione della propria identità.
Ecco, mio fratello ragiona esattamente allo stesso modo, senza dare mai punti di riferimento e impedendo a chiunque di capire le sue reali intenzioni, salvo poi svelarle un secondo prima del miracolo o del disastro. Andrea mi ha involontariamente trasmesso una passione viscerale per il gioco del calcio, che nel tempo si è evoluta in tantissime forme: una di queste è la fissa per i regolamenti e la struttura di tutti i tornei esistenti al mondo. Non di rado ci concediamo telefonate infinite che partono con “beh, sei a lavoro?” e si concludono due ore dopo con un’ampia trattazione circa il meccanismo di ripescaggio della Serie D italiana. Una roba quasi sempre incomprensibile per chi ci ascolta.
Quando ero bambino, la Playstation 1 e le console venute dopo sono state sempre in camera mia. A differenza mia, che ancora schifavo il calcio, Andrea passava tutto il tempo saltando da un gioco di calcio all’altro: ha giocato per non so quanto mesi a una versione di Winning Eleven con dentro tutto il campionato giapponese e per colpa di quella roba io oggi sono in grado di distinguere gli Shimizu S-Pulse dagli Jubilo Iwata e so anche che i Cerezo Osaka non si chiamano così per celebrare Toninho Cerezo, come riportato in una grande cazzata di Andrea, ma perché Cerezo in giapponese signifca Ciliegio. Aveva poi questa fissa nel dover fare la telecronaca alle partite che giocava, con una vocina sommessa che gli ha distrutto le corde vocali. Siccome non era in grado di trattenersi, mi toccava addormentarmi mentre lui mandava avanti ‘sta pantomima per tutta la notte e se magari arrivava un gol decisivo, l’esultanza prevedeva sempre che mi svegliasse tirandomi le orecchie gridando sottovoce “Seeeee, seeeee!!!”.
I videogiochi di calcio sono stati una delle prime cose che ci ha unito: attraverso gli stessi, Andrea mi ha instillato il dubbio che il calcio potesse essere uno sport interessante. Ricordo un quantitativo di aneddoti legati a questi giochi che potrei riempire tre puntate. Robe tipo:
un videogioco osceno chiamato Bomba 98;
Actua Soccer 2 con Alan Shearer in copertina e Andrea mi obbligava a urlare insieme a lui “Shearer, Shearer! SHEAREEEER!!!” ogni volta che apriva il menù di gioco;
Andrea che, un’ora dopo essersi rotto la testa in piscina, è a casa a giocare a Marcel Desailly Pro Football con un cerotto gigante all’altezza della nuca;
i giocatori slavi di SEGA Worldwide Soccer su PC, che si chiamavano tutti Dragan, Slogodan e Slobodan;
la Master League col Cagliari su PES 4, quando si è portato l’Xbox a Rimini, dove lavorò per tutta la stagione estiva. Ricordo che, quando tornò per qualche giorno, si mise a raccontare a papà e mamma tutte le sue avventure in Emilia Romagna; poi venne da me e disse semplicemente “Ho vinto la Champions League”;
il famosissimo torneo di PES 6 a 126 squadre.
Con quest’ultimo torneo è nata la leggenda di Sudamerica. Andrea adorava inventarsi tornei da giocare alla Playstation: progettava la formula, sorteggiava a mano le squadre usando dei bigliettini e poi giocava tutte le partite, appuntando i singoli risultati e aggiornando le classifiche. Quando dico “giocava tutte le partite” non intendo che c’era una o due squadre che lui usava, simulando il resto: Andrea giocava ogni singola partita del torneo usando sempre la squadra in casa e per questo i suoi tornei prevedevano sempre scontri di andata e ritorno, assicurando un principio di equità tale per cui lui giocava almeno una volta con entrambe le squadre. Praticamente per lui era un lavoro, passava intere giornate a riempire questi quaderni con dati di qualsiasi tipo e io al massimo potevo mettermi vicino a lui per guardare, o per chiedergli ogni tanto come stesse andando, quale era la squadra prima in classifica e chi secondo lui avrebbe vinto. La risposta a quest’ultima domanda era quasi sempre il Real Madrid. Immaginare di poter giocare insieme a lui era semplicemente utopistico, non era contemplato nell’ordine delle cose. Non poteva succedere, “che tu mica sai giocare”, perché fino al 2004 non avevo mai messo mano a un gioco di calcio. Potevo solo guardare e stare zitto.
All’uscita di Pro Evolution Soccer 6 io ho già quindici anni all’anagrafe, di cui almeno due di esperienza su PES, e sono stanco di doverlo guardare senza fare niente. Lui è ancora troppo più grande di me e anche se mi vuole bene, questo lo so, non abbiamo molto in comune. Un pomeriggio però trovo il coraggio di farmi avanti e gli propongo di fare un torneo assieme, alternandoci per giocare tutte le partite senza dover mai giocare contro, visto che lui è molto più forte. In realtà gliel’ho chiesto perché non mi andava più di dovergli lasciare la Playstation al minimo cenno: le mie ore erano, per sottrazione, tutte e sole quelle in cui non c’era lui. Ho ricevuto un eloquente “no”, diretto e pulito. Poi però ci ha ripensato e dopo qualche giorno è venuto in camera mia per dirmi “Ho bisogno di te per il più grande torneo di PES che io abbia mai fatto”.
L’idea era quella di un torneo di soli scontri a eliminazione diretta, con partite di andata e ritorno. Centoventotto squadre coinvolte: praticamente il gioco ne aveva solamente 126 e avremmo dovuto usare l’editor per aggiungerne due, sennò ci sfalsava la progressione geometrica 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128; oltre alle normali classifiche cannonieri e assist, avremmo introdotto la classifica degli MVP, raggiungendo un livello di dettaglio massimo. Ci abbiamo messo due ore solo per sorteggiare tutto il tabellone, io pescavo i bigliettini e lui scriveva. Si iniziava coi sessantaquattresimi di finale, un termine che mi spezza ancora oggi. L’accordo prevedeva che ci saremmo alternati per giocare tutte le partite, in base al tempo libero: io avrei coperto la fascia oraria pomeridiana, quando Andrea era in giro con gli amici o a giocare a calcio e lui avrebbe giocato la sera, prima e dopo cena. I turni, praticamente un lavoro, come dicevo.
Un pomeriggio in cui ho finito i compiti presto, mi sono messo a giocare alcune partite, come da accordi. Eravamo ai trentaduesimi di finale (già giocati oltre centocinquanta incontri) e la partita da giocare era Real Madrid - Lens. Mi toccava usare il Real, in casa, e nonostante fossi abbastanza inesperto, ho vinto uno a zero. La sera vengo convocato da Andrea: appena rientrato in casa, si è subito fiondato sul quadernetto e una volta letti i risultati mi ha impartito una lezione di politica applicata al calcio, spiegandomi che il Real Madrid è la squadra più importante del mondo e che noi, in quanto organizzatori del torneo, non possiamo permetterci di fare figure facendoli uscire subito, raccomandandosi po’ più di attenzione, perché “il Real deve arrivare almeno almeno almeno agli ottavi”.
Rimasi traumatizzato da questo rimprovero e per tutta risposta non giocai per qualche giorno, per paura di fare danni e per non tradire la sua fiducia. Tornata la voglia, mi sono messo a macinare qualche partita e guarda un po’ se maledetto Santiago Bernabeu ovunque lui sia non mi tocca la gara di ritorno, Lens - Real Madrid. È difficile da spiegare perché decisi di prendermi il rischio di giocarla: avrei potuto saltare la partita e farla giocare a lui, ma voi provate a immaginare come si sente un ragazzino che cerca in tutti i modi di catalizzare le attenzioni del suo unico fratello. La voglia di dimostrargli di essere adatto, di essere un delfino fedele, era troppo più grande del resto. Vado, gioco, vinco due a zero ma cristo, non si può fare, Andrea ha detto che il Real ci serve. Faccio finta che quella partita non sia mai esistita e la rigioco: vinco tre a uno usando il Lens a difficoltà Leggenda.
Il Real è fuori. L’etica mi impedisce di continuare a fingere che non sia successo, la voglia di diventare grande mi suggerisce di assecondare i desideri di mio fratello. Ma non ci riesco. Mi faccio coraggio e aggiorno il tabellone: il Real Madrid è eliminato e il Lens avanza al turno successivo.
Mio fratello rientra in casa dopo qualche ora, si fionda nuovamente sul quadernetto e si produce in un cazziatone pirotecnico: mi accusa di aver “sporcato il tabellone con un errore” ma io gli faccio presente che non sono riuscito a perdere contro il Real Madrid, che dovrebbe farmi i complimenti anziché rompermi le palle; lui è inamovibile e la risolve presto dicendomi che “il risultato non è stato omologato perché non c’erano testimoni” ma non ci sono MAI stati testimoni, ma che regola è, “silenzio, la gioco io”.
Vince tre a uno, il mio stesso risultato. La cosa che fa più ridere era l’impossibilità di giocare a perdere che avevamo entrambi: cioè ok il Real, ma non riuscivamo a fare finta di perderla quella partita. Silenzio da funerale che rompo dicendogli, ingenuamente, “adesso il tabellone è giusto, è il mio stesso risultato ed è omologato, c’ero io a fare da testimone”. Lui, impassibile, spegne la PS2 e mi fa “si si, domani lo aggiorniamo per bene, ora basta”. Andiamo a mangiare e poi niente partite post-cena, direttamente a letto.
La mattina dopo, mentre mi preparo per andare a scuola, mi cade l’occhio sul solito quadernetto, che Andrea ha dimenticato in camera mia: lo apro, più per guardare le partite successive che per dubbio, e scopro che nella notte il Real Madrid aveva incredibilmente vinto per tre a cinque in Francia, assicurandosi il passaggio del turno al termine di una partita memorabile.
Questo è Sudamerica.
L’equivoco dono dell’arte
Ormai questa puntata è andata via così, monografica. Avrei voluto parlare di Black Box, un film che ho visto mesi fa su Amazon con Ludovica, ma ormai è iniziata l’estate, fa caldo, i pensieri si annebbiano ed è venuto fuori altro e comunque avrei dovuto semplicemente dire: film bluff che sembra scritto, diretto e prodotto da un automa.
C’è un’altra storia che voglio raccontarvi.
A maggio sono stato per qualche giorno a Torino, dove vivono Giada e Andrea: il motivo ufficiale era la partenza del Giro d’Italia numero 107 da Venaria Reale, una cosa fuori di testa che un giorno vi racconterò; quello ufficioso era stare insieme ai due promessi qualche giorno prima dei tumulti matrimoniali.
La mattina di venerdì 3 maggio, vigilia della partenza, l’ho trascorsa al J Hotel, il fantomatico albergo della Juventus dove, secondi i tifosi, i giocatori vivrebbero insieme tipo Grande Fratello, allenandosi alla Continassa e dormendo in hotel. Mio fratello lavora lì: quando il Giro passa da Torino, l’albergo viene invaso da squadre che vi si appoggiano, sfruttando il parcheggio per mettere un po’ di ordine. Quest’anno c’erano l’italianissima Bardiani, i kazaki dell’Astana (la mia squadra preferita) e gli svizzeri della Tudor e le attività giornaliere sono, per tutti: sistemare le biciclette e l’attrezzatura e lavare costantemente i camion e le ammiraglie.
Comunque, quella mattina la passo a ciondolare da una parte all’altra: ogni tanto mi fermo per fare qualche domanda o per sbirciare le bici da vicino, sperando di capirci qualcosa. Non c’è tensione, anzi, sono tutti molto rilassati e amichevoli. Così rilassati da farmi infilare in un tour guidato dei truck della Tudor: l’azienda aveva invitato in albergo alcuni clienti esclusivi, gente che magari aveva speso un sacco di soldi in orologi Tudor, non lo so, però si vedeva da lontanissimo che era tutta gente piena di schei. Non a caso, la loro guida era Fabian Cancellara, detto Spartacus, oro olimpico nelle cronometro di Pechino 2008 e Rio de Janeiro 2016.
A mezzogiorno mi ‘ttacca la fame e Andrea mi fa accomodare al solito, piccolo tavolo della zona bar, quello dove pranzo ogni volta che sono lì da solo. Mi tolgo le cuffie, poggio lo zaino e mi prendo qualche secondo per guardarmi intorno prima di sedermi: alla mia destra, praticamente attaccato al mio tavolo, c’è un vecchietto molto alto, che ho già intravisto mentre pure lui si aggirava bello rilassato tra i camion delle squadre. Sta sfogliando il Garibaldi di quest’anno, il libro ufficiale che viene stampato a ogni edizione del Giro e che contiene tantissimi dettagli sui partecipanti e sulle singole tappe. Lo saluto quasi in silenzio, per non disturbarlo, e lui ricambia gentilmente; poi, visto che ho rotto il ghiaccio, gli faccio presente che siamo lì per lo stesso motivo e iniziamo a conoscerci.
Sto parlando con Vico Calabrò, veneto di Agordo, provincia di Belluno, nato nel 1938. Tra quattordici anni ne compie cento che Dio lo abbia sempre in gloria. Vico fa il pittore e il litografo, è stato allievo del maestro Bruno Saetti, ha vissuto in Spagna e a Parigi e ha realizzato un quantitativo di opere straordinario, girando l’Europa e il mondo intero. Tutte queste cose le ho apprese in questo momento, sfogliando il suo curriculum, perché mica si è messo a fare il riepilogo della sua vita. Non ci capisco un cazzo di quello che leggo e vengo catturato da parole random tipo 1987 - mostre in Jugoslavia e Germania oppure 1995 - Giungono da Tokyo gli allievi Yumiko: Ui e Hideo Sakata diventano collaboratori di Vico. Pazzesco, alla mia età faceva le mostre in Jugoslavia. Pensa io che mi scrivo nel curriculum 2024 - Ha comprato una sedia da spiaggia; si fa spalmare la crema solare dalla sua fidanzata.
Dal bagno a destra del corridoio esce Giancarlo Busato, che ci raggiunge e si siede al tavolo con Vico. Ok Google, chi è? Giancarlo gestisce la stamperia della sua famiglia, fondata nel 1946 da suo nonno Ottorino. La Stamperia d’Arte Busato ha sede a Vicenza, nel centro storico, ed è la casa di alcuni artisti come lo stesso Vico o come Osvaldo Casanova, di cui ho una illustrazione a casa. Perché ho un’icona di Casanova in camera da letto? È un regalo di alcuni amici vicentini: appartiene a un’altra vita in cui sognavo di girare il mondo assieme ai miei amici organizzando tornei di calcio tre contro tre per strada. In una di queste avventure abbiamo conosciuto una squadra di calcio amatoriale di Vicenza, gli Attacchi di Pane, e il loro presidente Giovanni Diamanti mi ha regalato questa illustrazione.
Saltiamo di nuovo a Torino. Vico e Giancarlo non mi parlano di loro ma mi spiegano che sono qui per il Giro d’Italia, appunto. Ogni anno da mille anni probabilmente il signor Vico realizza una illustrazione che celebra la partenza del Giro; poi ne stampa un tot di copie alla litografia di Giancarlo ed entrambi raggiungono la prima tappa del Giro per consegnare le stampe un po’ a chiunque tra corridori e addetti ai lavori, che ormai li conoscono bene, come testimoniato dal Direttore Sportivo della Bardiani che entra, li vede e si fionda a salutare chiedendogli dell’illustrazione di quest’anno.
Vicino a Vico c’è questo mucchio di cartellette rosa molto appariscenti. Ne estrae una per mostramela: un foglio di cartoncino rosa poco spesso, con all’interno la stampa di un ciclista in rosa che sembra uscire dalla Reggia di Venaria Reale mentre stringe una specie di sciarpa con su scritto 107 GIRO D’ITALIA. Le copie sono numerate, quella che stringo in mano è la numero 87 di 107 e quando faccio per restituirgliela, Vico la spinge piano verso di me e mi dice che sono il primo a ricevere l’illustrazione del Giro d’Italia numero 107 (quello della Bardiani è entrato dopo). Poi rifiuta di elaborare oltre e procede a scrivere “Massimiliano” su un quadernetto, in corrispondenza del numero 87.
Non so cosa pensare in quel momento. Sono spezzato da questa situazione: mi rigiro la cartelletta tra le mani, soffermandomi sui dettagli per nascondere l’imbarazzo e la forte felicità, ignorando il mio pranzo diventato di ghiaccio. Mentre continuo a ringraziarli, noto il sigillo sulla copertina: BVSATO LITOGRAFO IN VICENZA. Vicenza? Ma io ho degli amici a Vicenza! Insomma, dopo dieci minuti di ricostruzione dell’intera popolazione della provincia vicentina, ecco venir fuori una foto di Giancarlo che fuma un sigaro in compagnia del mio amico Giovanni, quello che mi ha regalato una stampa che è stata fatta nella litografia di Giancarlo.
Quanto cazzo è straordinario essere persone, mi sembra impossibile che stia succedendo questa cosa.
Il giorno dopo, nei cortili della Reggia di Venaria Reale, mi tuffo in mezzo agli stand del Villaggio Rosa. Pubblicità, concorsi a premi, anche una bicicletta da corsa buttata in un bidone della plastica. C’è gioia nell’aria, c’è la felicità che anima tante persone che si incontrano insieme per condividere la stessa passione. Mentre passeggio sento qualcuno che mi chiama alle spalle: mi giro e vedo Bebe Vio che sta scattando delle foto assieme a una folla di fan, posando davanti a una Toyota full electric poggiata su un piedistallo. Ma che cazzo vuole Bebe Vio da me? A ‘st’ora, per di più. Da dietro allo stand vedo sbucare di nuovo la coppia, Giancarlo e Vico, che mi vengono incontro con passo allegro. “Cercavo proprio te oggi”, esordisce Vico, e da lì una serie di domande su mio fratello: il giorno prima, tra le varie cose, gli ho spiegato che Andrea si sarebbe sposato a breve e ora Vico vuole sapere come si chiama la sua futura moglie, quali sono le passioni che li accomunano, se gli piace cucinare ma non solo a Giada, inteso come coppia, stupidi e se gli piacciono le bici. Scrive tutto sulla copia del giorno della Gazzetta dello Sport, mentre Giancarlo sorride. Poi mi saluta, promettendomi che ci saremmo risentiti presto.
Ok, l’ho pensato subito, farà sicuro una illustrazione per gli sposi. Ma perché proprio per loro? Perché non celebrare invece il nostro fortuito incontro? Non me lo sono chiesto poi così tanto, con Andrea di mezzo queste cose succedono sempre e aivoglia a cercare spiegazioni.
Mi sono goduto ogni singolo secondo della partenza del Giro e per qualche ora ho respinto con forza questa sensazione che mi porto appresso, questo tormento che non mi lascia da settimane. L'impressione di non essere mai nello stesso posto con il corpo e con la testa contemporaneamente, di essere perennemente distratto da qualcosa che mi sfugge, da pensieri che non riesco a centrare e che mi portano lontano, in una piccola stanza dove ci sono solo io con il mio silenzio. Anche il giorno del matrimonio era così, fin dalla mattina. È stata così tutta la settimana. Appena arrivato al ristorante, una gentile fotografa ha chiesto a me, papà e la mamma di prepararci per scattare alcune foto insieme allo sposo, delle pose mentre lo aiutavamo a vestirsi. Ho iniziato a spogliarmi lentamente: via la maglietta e le scarpe, poi ho svuotato le tasche, con le chiavi della macchina, le sigarette e alla fine il telefono. In una scena che, se vista da fuori, avrebbe ricordato un po’ Bilbo Baggins che si rigira in mano l’Unico Anello, ho tenuto il telefono in mano per qualche secondo. Mi sono detto “se tutto va come dovrebbe, mio fratello non si sposerà una seconda volta e non avrò altri fratelli: questo giorno non mi capiterà mai più nella vita, non posso perdermi un secondo” e ho spento il telefono. È stata la scelta migliore della mia vita
Ma poi perché un regalo per mio fratello e non per me? Non lo capirò mai.
Viva gli sposi. Scrivetemi. Ci sentiamo presto.
Che dire signori!❤️❤️❤️
😭😭😭