Piatto Unico (se gradito) #27
Ma quanti significati diversi ha la parola "penne"? Penne USB, penne per scrivere, penne nel senso di pasta, penne ovvero piume, Penne (PE), penna in quanto estremità delle frecce, penne dei monti.
Una pacchetta sulla spalla e ben ritrovati con Piatto Unico (se gradito), la newsletter in cui, con sforzi disumani da panca piana, infilo un sacco di link per dare contesto alle cose che dico o per far capire le geniali battute che faccio: peccato che solo il 3% di voi ha la premura di cliccarli, quindi, serio, chi cazzo me la fa fare, tanto vale farmi i fatti miei senza avere la presunzione di stare qua a spiegare a voi cose come la simpatia, l’umorismo o l’effetto Venturi applicato a un becco di Bunsen. Io sono Massimiliano e vi scrivo da Bari, famosa per il romantico lungomare e per quell’auto del car sharing che, come in una puntata dei Power Rangers, è stata data alle fiamme con lo Stadio San Nicola sullo sfondo, proprio nel giorno in cui l’azienda (credo fosse Pikyrent) ringraziava i baresi per l’accoglienza.
A inizio ottobre ho conosciuto il nuovo inquilino di casa: il suo è un curioso caso di mani sudate, troppo sudate per non essere uno appena uscito da una macchina nera parcheggiata sotto al sole. È la sua prima volta lontano da casa, la sua faccia raccontava di un pomeriggio di tumulti, passato a contare i secondi che lo separano dal tornare alla sua vera casa. Provando a tranquillizzarlo, gli ho risposto “Vabbè, rilassati, è la tua prima sera fuori casa. Datti tempo, se puoi. Vedi come vanno le cose. Magari migliorano”. Non ha funzionato e in cinque giorni di orologio è tornato dai suoi: dice che seguirà le lezioni online ma terrà la casa per gli esami, così può dormire comodo una notte al mese per soli trecentoventi euro più consumi.
Da ragazzino ero come lui perché casa mia l’ho sempre adorata ed ancora oggi rappresenta l’unico posto che mi fa stare bene anche solo entrandoci; privarmi di tutte quelle cose a cui difficilmente riesco a rinunciare, come le mie comodità, la mia famiglia e i tappeti, è oggettivamente un inferno. Ci è voluto un po’ di tempo per mettere le cose al loro posto, assieme a tutta una serie ben nutrita di campi estivi con l’Oratorio Piergiorgio Frassati della Parrocchia Maria Santissima del Carmine, di gite scolastiche tipo quella nella Grecia classica o tipo le tre settimane passate a Londra in quinto superiore a frequentare un corso di inglese super-bluff o come la vacanza sulla Costa Concordia sei mesi prima che affondasse, insomma, tutte cose che mi hanno aiutato a combattere questa convinzione che si potesse stare bene solo nella mia stanza. È rimasto il problema del cuscino, ma su quello, con un po’ di impegno, riesco a sorvolare.
Non sono sicuro di voler scoprire se per lui le cose andranno per il meglio. Il pensiero che tra qualche settimana le nostre stanze da letto non saranno più vicine mi fa sentire egoisticamente sollevato: ho dodici anni in più di lui, viviamo due momenti della nostra vita che sono completamente diversi e vorrei smetterla di comportarmi come il vecchio saggio che spiega alle nuove leve come si scrostano le padelle antiaderenti o come si toglie il calcare dal soffione della doccia. Con calma ho iniziato a preparare i pacchi per il trasloco, che secondo gli analisti si verificherà assolutamente prima di Natale, e questo mi fa stare bene, perché non vedo l’ora di andarmene e trasferirmi in una casa più casa.
Fortunatamente, sembra un ragazzo molto gentile. L’altro giorno, mentre preparavo il pranzo, è sbucato alle mie spalle, forse rinfrancato dalla presenza di qualcuno in casa: abbiamo scambiato due parole e non mi è sembrato molto convinto dell’esperienza accademica, anzi, era addirittura sollevato quando ha scoperto che ci ho messo otto anni per prendermi la laurea triennale bastardo. Poi ha fatto come per andarsene in camera sua, ma sotto la porta mi ha detto “Se vuoi fare una partita ogni tanto bussa pure. Sto giocando a FIFA 24”. Ho declinato, dicendo che ho una carriera su PES 6 proprio perché FIFA mi fa cacare, ma che magari ogni tanto mi affaccio per fagli compagnia. “Se vuoi ho anche GTA V, non so se lo conosci o lo hai mai giocato”. Madonna, l’avrei stampato al muro, il pazzo, guarda che ti porto a scuola, ma pensa te, è arrivato lui, Geoff Keighley del quartiere Carrassi-San Pasquale, che mi deve spiegare cosa è GTA V a me, che quando è uscito ho comprato la Collectors Edition con la custodia in alluminio, che sono un fiero possessore di una versione fotocopiata di “Grand Theft Auto: Motion eMotion” di Colin Harvey, con prefazione di Jaime D’Alessandro. Veramente, hanno ragione i vecchi che sputano e dicono che non c’è più rispetto. ‘sti pagliacci.
L’inconfutabile prova del cucchiaino fumante
C’è un momento nella vita di buona parte degli uomini e delle donne in cui andare via da casa diventa una necessità non più negoziabile. Nella storia che sto per raccontarvi, questo momento ha coordinate spazio-temporali estremamente precise: è mercoledì pomeriggio 18 ottobre del 2017, siamo in Corso Umberto I, a Francavilla Fontana. Qui, all’inizio del largo vialone alberato a senso unico, il manto stradale mette in mostra ciò che è rimasto delle famose chianche, antichi elementi del basolato cittadino che in questo punto contribuiscono a creare una suggestiva piazzetta, uno dei punti più fotografati del piccolo paesino: merito del Castello Imperiali, con il suo fossato rigoglioso e le sue forme geometriche estremamente precise. A specchiarsi nel castello ci pensa il panificio della famiglia Gioia, ultimo avamposto in ordine di tempo di una importante stirpe di fornai del paese; accanto, c’è il Bar Chopin, al civico 100, un tempo noto anche come “lu Bar ti li scaluni”, il bar in cima alla scalinata, il luogo dove ho lavorato, a intervalli irregolari, per circa sei anni.
Anche quel pomeriggio sono al lavoro e insieme a mio fratello Andrea e mio cugino Daniele occupiamo le postazioni ormai consolidate: loro due dietro al bancone e io che faccio la spola tra il banco e i tavoli, portando caffè, succhi, spremute e brioche di vario tipo. Alle 17:35, dall’unica porta di accesso del locale, entrano Cosimo e Michelina, i miei genitori: sono due clienti abituali, che ogni giorno riescono a ritagliarsi un paio d’ore da passare nei pressi del bar, scambiando due parole con figli e nipote mentre consumano un caffè, un unico caffè che bevono entrambi, perché Cosimo non tollera più eccesive dosi di caffeina.
Quel pomeriggio nel bar si parla di case, appartamenti e villette di campagna. Sul bancone di marmo costantemente lucidato da colpi sicuri di stracci umidi, gli avventori si trovano, loro malgrado, coinvolti in discussioni sui temi più disparati e quelli con più coraggio condensano in pochi minuti il loro punto di vista: affitti, pavimenti, sostanziali differenze tra tapparelle elettriche o a nastro, ognuno dice la sua mentre consuma velocemente qualcosa e io non sono da meno. In un impercettibile momento di silenzio, Michelina, fino a quel momento attenta ascoltatrice, d’un tratto prende la parola, con particolare sorpresa dei presenti: “Ma cosa ne vuoi sapere tu? A venticinque anni non sei ancora mai stato lontano da casa!”. Sono di spalle, con le mani che affondano nelle stoviglie da lavare. Nessuno reagisce alle parole che Michelina ha pronunciato con fare provocatorio e questa volta il silenzio diventa persistente, solido. Mi giro e quel piccolo, macabro sospetto covato per pochi secondi, diventa perfettamente aderente alla realtà: mia madre ce l’ha con me, mi guarda con ancora in mano il cucchiaino usato per girare l’espresso, da cui esce un flebilissimo anelito di vapore. È il momento in cui la nostra storia cambia per sempre. La replica non si è fatta attendere: “La settimana prossima me ne vado da casa”.
Io sono Stefano Nazzi, state ascoltando IndaNo, dai scherzo, quanto volevo fare ‘sta cosa, me la sono sognata sotto la doccia e ridevo come un imbecille, di gusto, tipo hahahahaha adesso gli devo fare lo scherzetto, così, per esercizio di stile.
Power Ranking - Case in cui ho vissuto
Casa dei miei genitori - banale, ripetitivo e lineare. Ventotto anni vissuti ad altissimo livello, indubbiamente la migliore casa in cui mi sia capitato di vivere. Consigliatissima;
Casa di Andrea e Giada a Torino - ottima alternativa a quella di cui sopra. In periferia, a eco delle situazioni in cui siamo cresciuti, ma con l’ascensore, che non abbiamo mai avuto e che rappresenta un po' la metafora dei figli che superano i genitori e si portano a un livello successivo. Giudizio complessivo fortemente influenzato dalla presenza di due gatti;
Casa a Lecce in Via Adriatica - la mia ossessione, la mia guacamole sacra. Non di rado, nei momenti un po’ così, tipo i venerdì tardo pomeriggio da maggio a settembre, quando devo percorrere il pezzettino della SS 16 che da Latiano porta a Francavilla e alla mia destra c’è il tramonto, mi capita di lasciarmi andare ai ricordi di quello che è stato per me vivere in Via Adriatica, alle avventure vissute, tipo lo zio pazzo del piano di sopra o il vicino che buttò una rosetta di pane per strada dopo la vittoria contro la Spagna a EURO 2020. Se mi metto a raccontare di Via Adriatica solitamente riesco a tenere banco per almeno un paio d’ore;
Casa a Bari al quartiere Libertà - ci ho vissuto solo un mese. Ma che mese signori miei, pensate che c’ho ancora salvato il numero di “Lello Casa Libertà” per tenerlo sempre a mente quel bastardo che me l’ha piazzata, perché tanto prima o poi lo incontro. Il quartiere Libertà è forse l’unico avamposto della malavita barese nel centro città, oltre a essere una sorta di quartiere discarica con dentro tutte le situazioni più borderline che oltre trecentomila abitanti possono offrire. Spacciatori ad ogni angolo, clochard molesti, anche un coinquilino che nella vita faceva la controfigura di John Lennon. E tutto questo, Lello, non me l’aveva detto;
Casa a Bari con Ahmed - praticamente un anno di erasmus quello che ho trascorso insieme al mio coinquilino nato e cresciuto a Mogadiscio, Somalia. Lui è particolarmente famoso nella ben nutrita comunità somala barese, in special modo per il suo squisito pollo ripieno e per il suo incredibile potere di riuscire a chiudere le porte senza usare le chiavi. Bari è una destinazione ambita per gli studenti somali, che conoscono alcune parole italiane per via del nostro passato coloniale: qui arrivano per studiare scienze veterinarie e poi tornare nel loro paese dai scrivila la battuta che stavi pensando, non ti vergognare, sei comunque una merda anche solo perché l’hai pensata. Una sera sono tornato a casa ed erano in quattordici, tutti stipati nella cucina a parlottare con voce altissima: mi sembrava di essermi svegliato in un DLC di The Sims;
Casa a Bari in Via Isonzo - quella dove attualmente vivo e che ricorderò ancora di più per il litigio col vicino avvenuto poche settimane fa. Lui era incazzato e portava a passeggio il cane; io mi ero svegliato venti minuti prima e andavo in ufficio. Non poteva succedere nulla di buono e infatti lui si è messo a fare questioni in modo molto stupido e io l’ho strattonato per un braccio, ma solo quando ho capito che potevo fare il gradasso;
Casa di Cosimo e Carla a Genova - dolce ricordo di quel famoso concorso delle Ferrovie dello Stato in cui ho scoperto di essere daltonico (ve l’ho raccontato qui);
Casa di Gone Home - forse la miglior casa digitale che ho avuto modo di abitare, un gradino più in alto rispetto a quella di Resident Evil VII, che secondo me rimane un’eccellenza dell’architettura moderna. Ricordo ancora con piacere come Gone Home scherzi con il giocatore, facendogli credere costantemente di essere in uno dei migliori horror mai visti;
Casa dei miei ma in campagna - nel 2019 per Petrolio ho raccontato delle mie estati in contrada Cantagallo. C’entrano Metal Gear Solid, un ragazzo che avrebbe frequentato la secondina e delle bellissime illustrazioni originali di Gianmario Taurisano che fanno da sfondo a una storia di campagna, appunto.
Breve aggiornamento.
Arrivato a questo punto della scrittura di questa newsletter, gli analisti hanno ritoccato al ribasso le loro previsioni circa il trasloco: da metà dicembre siamo passati a inizio novembre, per tutta una serie di variabili che stanno intervenendo.
Vi terremo aggiornati.
Doing the right thing
Io ho un problema piuttosto grave con tutte le cose che riguardano Breaking Bad, a cominciare dal fatto che mi sembra assurdo non sia stata ancora coniata una parola per racchiudere tutte le cose che sono uscite dalle varie costole della serie, tipo il Wizarding World per Harry Potter o il Multiverso per la Marvel o Temptation Island per i cerebrolesi. Toccasse a me decidere, userei “Methuniverse”, che suona anche bene e mi ricorda il Mexiverso introdotto in Guacamelee! 2, col quale mi sto sollazzando nelle ultime settimane.
Comunque, questo problema nasce dal fatto che mi piace. Molto. Sono riuscito a guardare tre volte la serie per intero: la prima volta è successo subito dopo la pubblicazione dell’ultima stagione; la seconda volta a qualche anno di distanza dalla prima, per poterlo guardare in lingua originale; la terza volta all’uscita di El Camino, perché appena iniziato c’erano un paio di personaggi di cui non ricordavo niente e allora ho guardato tutto da zero per collegare i puntini. E fin qui tutto normale, sono un normalissimo fan che ha investito centottanta ore a guardare sempre la stessa cosa.
Il vero problema si è presentato quando il mio algoritmo di Facebook ha capito che i video di Breaking Bad mi piacciono molto e per farvi capire questo concetto devo, con una puntina di orgoglio, introdurvi il mio personalissimo Teorema della Scrollata, noto anche come Teorema di Miao-Cacciavite (praticamente le due cose che guardo di più sui social, gatti e bricolage). L’enunciato dice che, riporto testualmente:
“L’ottimo in termini di fruizione di contenuti video è strettamente legato al numero di social network (sn) utilizzati e alle caratteristiche degli algoritmi implementati: al crescere di sn si verifica una c.d. ridondanza informativa, correlata a una diffusa perdita di interesse; al tendere verso zero di sn si riduce contestualmente la capacità di esplorazione e si riduce la probabilità di intercettare i migliori trend del momento.”
Essendo il fautore di questa teoria, mi sono preso la responsabilità di individuare in tre il numero perfetto di social network da consultare. Nel mio personalissimo caso, il triangolo è composto da Facebook, Instagram e TikTok, con una precisa rotazione:
Facebook per primo, perché è estremamente efficace nel capire che cosa ti piace, grazie anche a una serie di banner che ti chiedono “Ma ti piace davvero quello che stai guardando? Saresti felice se te ne mostrassimo ancora di più, sempre di più? Sei sicuro poi di non venire a lamentarti con noi perché ti annoi? E i tre numeri dietro la carta di tua madre quali sono?”. Per questo motivo lo apro ogni giorno, più volte al giorno;
Instagram, il secondo, è specializzato nel trovare reel che fanno molto ridere. Inoltre il mio crede che io sia spagnolo, quindi mi propina costantemente meme in lingue affini, come il portoghese e il messicano. Lo uso quasi esclusivamente in pausa pranzo, quando nessuno ha niente da dire o voglia di parlare;
TikTok, infine, ospita i migliori creator del settore, quindi è un must have per scoprire le tendenze del periodo. Lo uso solo il fine settimana, specialmente il venerdì, quando torno da Bari e mi lascio andare sul letto, inerme.
Come dicevo, Facebook ha capito che mi piace Breaking Bad e da circa tre anni continua a intrattenermi con video di qualche minuto. Inizialmente erano tutte clip di alto livello, principalmente caricate da pagine di cinema e quindi coi sottotitoli, i dietro le quinte, il copione in basso e tutto il resto. Da qualche mese però ha autonomamente deciso di fare sul serio e quindi la qualità è andata a farsi benedire: i video “di settore” sono stati rimpiazzati da piccole clip coi colori tutti saturati, con la musica in sottofondo tipo highlights di Cristiano Ronaldo alla Juventus. Ma soprattutto, sono tutti video caricati da pagine di esercizi commerciali indiani o pakistani, tipo bar, ristoranti o negozi di smartphone, e quindi in breve mi sono trovato a ricevere i famosi “Badge utente più attivo” di robe come AI.SubPot., Punjabi Monsta e Pak(istan) News - PAK NEWS.
Alla fine l’algoritmo si è incasinato definitivamente e ha sovrapposto i video di Breaking Bad con quelli di Better Call Saul, facendomi pensare che buona parte del filtraggio dei video affini tra loro sia fatto anche grazie al riconoscimento delle immagini. Per un po’ sono riuscito a evitarli, perché avevo in programma di recuperare la serie tra qualche anno: al centesimo reel di BCS mi sono messo una mano sulla coscienza e ho iniziato a guardarlo, bruciando la prima stagione in quattro giorni. Questa è la mia vita, questo sono io, un uomo in balìa degli input che riceve e che grazie a questi è riuscito a ritagliarsi un posto da luminare nella comunità scientifica, perché sono sicuro che il mio teorema cambierà anche il vostro modo di interpretare il tutto.
Al termine di alcuni giorni particolarmente tesi, è stato confermato il trasloco per il primo novembre, così da poter celebrare la giornata di Ognissanti bestemmiandoli tutti insieme. Con un complicato sistema di leve e specchi, abbiamo incastrato tutto tra casa vecchia da lasciare e casa nuova dove andare. Ora resta solo da spostare le cose.
La letale Mossa del Ruscello
L’espediente del racconto noir è nato perché da qualche settimana sto ascoltando il podcast Indagini di Stefano Nazzi. Anche se sono zero fan delle robe crime, Nazzi ha un timbro e una chiarezza che mi stimolano molto, che mi ricordano un po’ Carlo Lucarelli quando faceva Dee Giallo, quindi lo ascolto con piacere. Tutto il contrario, per esempio, di tale Elisa True Crime, che ha questa insopportabile abitudine di specificare sempre, prima di nominarle, le cose di cui non si ritiene esperta. Le sue puntate sono un susseguirsi di robe come “Ora, provo a dirlo, non prendetemi in giro, non sono molto esperta in materia, la vittima stava giocando a Kaaatamaaaari Damacy ReeeRoll? Si dice così? Non me ne intendo, mi spiace, mica potevo raccogliere un po’ di informazioni, farmi dire da qualcuno di cosa si trattasse o come si pronuncia, no, per carità, meglio uscire con questa aura un po’ impreparata e buttare la scusa lì, per caso, come se mi fosse scivolata dalle tasche”.
Fatta la polemica, ho bisogno di mettermi in pace con me stesso e quindi torniamo a quella volta nel bar, con la frase un po’ guascona di mia madre e tutto ciò che è arrivato dopo. Mi sono incazzato da morire ma non ho avuto la prontezza di reagire immediatamente e forse, a pensarci bene, con i nostri genitori non dovremmo mai avere nessun prontezza di reazione. Basterebbe prendere le loro parole per quello che sono, ovvero polemiche sterili e fatte male disperati tentativi di esercitare ancora per un po’ una specie di controllo nei confronti dei propri figli.
Continuavo a pensare ma veramente mi merito di passare alla storia come quello che non ha mai avuto il coraggio di andare via da casa? Quello che non ha tenuto botta, interrompendo la grande tradizione migratoria scritta nel suo sangue? Parliamoci chiaro: la mia generazione si è ritrovata addosso un anatema gigante e non mi riferisco a tutti quei grafici arancioni e neri di Will Media, che ti raccontano per bene quanto è aumentato il costo delle case, l’evoluzione dei mutui dal 1924 a oggi e quanto potere d’acquisto è stato eroso dall’impennata dell’inflazione però attraverso un diagramma incomprensibile. Questi temi assolutamente legittimi esprimono un peso irrilevante se paragonati alla imperiosa rottura di palle dovuta al fatto che i nostri genitori, per una serie di incastri irripetibili modello Stefano Baldini nel 2004 ad Atene, sono probabilmente l’ultima generazione che è riuscita ad andare via da casa davvero molto presto.
Ci ho messo comunque poco a passare dal dubbio, quello di essere davvero uno stronzo aggrappato alle spalle di mio padre, alla decisione, quella di andarmene senza raccomandata per il preavviso di tre mesi. Vabbè, non è che sono scappato di notte portandomi appresso le galline eh: mi sono fatto la valigia, normalmente, mettendo dentro i vestiti, con mia madre che mi aiutava a scegliere cosa portare e poi me ne sono andato. Direzione: casa di Piero, un amico che in quel momento della sua vita viveva con il suo cane in una bella casa in centro.
Prima del 2020 non ho avuto bisogno di provare la famosa vita da universitario: la mia università era a soli trenta minuti di autobus da casa e sarebbe stato abbastanza ridicolo fare la finta di volermi trasferire, per andare dove poi, a Brindisi. Mio fratello, invece, già a sedici anni si era messo a fare le stagioni in Valle d’Aosta e sulla Riviera Romagnola, lavorando come cameriere o aiuto cuoco per improbabili professori dell’IPSSAR Sandro Pertini, Istituto Professionale per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione, famoso hub d’incontro tra proprietari di enormi stabilimenti balneari e giovanissimi sbarbati in cerca di qualche soldo da spendere in cappotti Moncler e attrezzature varie a firma Polini e Arrow. Era la mia stessa scuola, ma io non ho mai avuto l’animo della scoperta rivolto verso esotiche discoteche del nord a forma di piramide: mi accontentavo di fare il cameriere vicino casa, in modo da essere pronto a saltare da un ramo all’altro fino a cambiare definitivamente lavoro e alla fine ci sono riuscito. Ci ho messo dodici anni ma ce l’ho fatta, la mia è una storia di successo.
Non è giusto, stai mentendo, sii te stesso. La verità è che ho sempre pensato di avere addosso una maledizione che mi avrebbe costretto a fare il cameriere per tutta la vita, pagando lo scotto di non aver mai creduto abbastanza nelle mie capacità. Ancora oggi mi capita, nei momenti critici della mia vita professionale, di pensare a quelle sere dilatate, con i piedi esplosi e i muscoli delle gambe che si chiedono se davvero dall’alto qualcuno stia facendo lo sforzo di camminare; ripenso alle “trenta euro a servizio”, che certi giorni erano trenta euro per otto ore e altre volte erano spalmati su dodici, anche tredici ore consecutive; mi ricordo di quando mi hanno pagato coi voucher o di quando mi versavano delle robe integrative su una Postepay che non ho mai posseduto o di quando ho lavorato un anno come tirocinante a seicento euro al mese e infatti quando poi arrivò la cassa integrazione forzata per il Covid io ero l’unico stronzo che guadagnava di più di prima.
Quando succede, solitamente la notte e precisamente un secondo prima di riuscire ad addormentarmi, fisso la materia e l’antimateria dell’universo concentrate sul mio cuscino e mi ripeto “Cazzo, ma quanto mi sono sbattuto per arrivare fino a qui? Possibile che devo dimenarmi ancora di più per evitare di tornare indietro?” e quindi eccomi, mi sento costantemente come uno che sta scalando un muro di cui non si riesce mai a intravedere la cima e allora allungo le mani, trovo un appiglio e faccio leva con le braccia per issarmi un po’ più in alto ma niente, non metto a fuoco nulla, vedo nitidamente solo le persone che mi aspettano giù, che mi fanno il gesto del mazzo con le mani, pronte a dirmi “eeeh, che io te l’avevo detto” e tra di loro sono sicuro di intravedere delle facce che conosco ed è opprimente, è la paura di fallire di nuovo, tanto che ad agosto, qualche giorno dopo aver cambiato lavoro, un mio collega mi ha detto “Beh allora? La compriamo questa casa ora che è arrivata la firma?” e io “Eh, insomma, non sai mai cosa può succedere. Magari aspetto” ma in realtà intendevo esattamente tutte quelle cose che pensi ma non puoi dire tipo e se rimango senza lavoro? e se mi chiama l’UniSalento e mi dice che la mia laurea è stata stracciata? e se vengo condannato a vent’anni di lavori socialmente utili come cameriere nelle peggiori pizzerie del mio paese? e se domani mi sveglio e ho di nuovo il camice rosso e il cappellino in testa e sto farcendo le pucce ai clienti che mi guardano scocciati aspettando per mangiare? e se invece dovessi diventare pazzo e ripetere all’infinito tutte le comande che prendevo al bar tipo “Due cappuccini chiari senza cacao, un cornetto vegano alla marmellata, un caffè ristretto corretto San Marzano, due bitter rossi e un tris secco…”?
Meglio non pensarci più. Al massimo lo faccio stasera.
Comunque, ho scollinato i venticinque anni che vivevo ancora, felicemente e spensieratamente a casa coi miei, facendo il minimo indispensabile per rendermi utile, tipo tenere in ordine la camera, mettere a posto i vestiti appena stirati, le magliette nei loro cassetti, aiutare papà a salire l’acqua e aiutare la mamma a salire la spesa. Normale amministrazione da figlio che, per contrappasso d’età, diventa più in salute di quell’uomo visto sempre come un totem, un elogio vivente alla forza umana. Non ho mai avuto nulla da cui fuggire, non mi ha nemmeno mai sfiorato la minima intenzione di rinunciare alla mia famiglia. Quel pomeriggio però è stato diverso, era diventata una questione di principio e il mio orgoglio in quel momento era tipo così
Ho pensato che se mi fossi trasferito prima di mio fratello, che è cinque anni più grande di me, avrei cambiato le cose e riscattato la mia immagine pubblica. Sarei stato per una volta l’esempio da seguire, quello che ha fatto meglio degli insegnamenti ricevuti. E così ho fatto: ho chiuso la valigia, ho preparato altre cose che sarei passato a prendere nei giorni successivi, e me ne sono andato a casa di Piero, dove ho vissuto dei giorni indimenticabili, i miei primi giorni da figlio libero. Io e Piero siamo stati benissimo insieme, questo lo dici tu, dovresti chiedere a lui cosa ne pensa, tanto che a un certo punto ho iniziato a pensare che avremmo potuto vivere per sempre così. La vita di coppia era come una catena di montaggio perfettamente organizzata: se Piero caricava la lavatrice, io la svuotavo; se Piero tornava al pomeriggio, io lasciavo il pranzo per entrambi e se lavorava di notte mi svegliavo con un cornetto per la colazione. Avevamo già parlato di come dividerci le spese, l’affitto e cose simili, volevo rimanere lì assieme a lui e al suo cane senza chiedermi quando sarebbe finito.
È durato solo sedici giorni. Poi, sempre di mercoledì, i miei genitori sono entrati nel bar esattamente come ogni pomeriggio: un caffè in due, la mamma mi ha chiesto “Cosa hai mangiato oggi a pranzo? La lavatrice l’hai fatta? Domani passi a prenderti altre cose?” quasi divertita. Finito il caffè, lei solitamente usciva a fumare una sigaretta, con papà vicino a lei a fare compagnia o forse a fare la guardia perché al paese tuo sembrano male le donne che fumano ai tavolini dei bar da sole, come se stessero aspettando che qualcuno gli si sieda accanto. Quella volta papà è rimasto dentro. Ha aspettato che il bar si svuotasse e poi si è girato verso di me con gli occhi lucidi, il solo bancone di marmo a separarci. “Quando torni a casa? Io e la mamma sentiamo tanto la tua mancanza. La casa senza di te sembra vuota.” Eccola lì, maledizione, la finisher di mio padre, la sua signature move che è in grado di attivare premendo tutti e quattro i dorsali: la Mossa del Ruscello, sfoderata una o due volte all’anno, perché poi papà si commuove piano piano, quasi impercettibile.
Non ho resistito. La sera ero già nel mio letto. Ho salutato Piero con molto rammarico, probabilmente nel giro di un anno mi sarei innamorato di lui e del suo modo di prendersi cura di me. Così non è stato. Che poi, incredibile, tacciato di aver svuotato la casa, quando c’era letteralmente ancora mio fratello dentro, che continuava a sghignazzare perché sapeva che prima o poi sarei tornato.
Amici, che dire, questa è la puntata più lunga di sempre per Piatto Unico, anzi, è la puntata che ha occupato più memoria di sempre, in fatti non arriverà in un’unica mail ma bisognerà finire di leggerla sulla app, credo, non lo so, non ho mai pubblicato con
questo banner attivo, ma ho sempre giocato sulla linea di fondo per eliminarlo, tagliando le parole, togliendo le immagini, Togliatti financo. Mai avrei pensato, comunque, di riuscire a finire a scrivere prima di traslocare, quindi felicitazioni per me, un saluto a voi e ci risentiamo da casa nuova.
Un abbraccio!
Io ti adoro ma questa volta hai davvero esagerato con la lunghezza ahaha
Tutto molto bello, in particolare mi ha ucciso la descrizione di questi perfetti automatismi della vita con Piero, algoritmi che sembravano il frutto di un affinamento dei processi della Toyota ed evoluzioni organiche sviluppatesi in svariati mesi... per poi scoprire che stavi descrivendo due settimane XD
Grazie per la ricostruzione dell'attività barese di Pikyrent in così pochi pixel, esilarante.
Di Indagini ho ascoltato tutto, idem BCS, di cui attenderò una tua recensione ;)