Piatto Unico (se gradito) #25
Perché questa realtà e non un'altra? Perché proprio quella in cui sono alto poco più di centosessanta centimetri e non quella in cui sono, che so, Shaquille O'Neal?
Ancora una volta benvenuti oppure ben ritrovati o in alternativa dove avete parcheggiato? con una nuova, l’ennesima, la venticinquesima puntata di Piatto Unico (se gradito), una newsletter dove non c’è mai stata la paura di dire le cose come stanno. Anche perché, realmente, come dovrebbero stare? Provate a immaginarmi: sto soccombendo senza reagire minimamente all’ennesima estate tipicamente suditaliana, fatta di :
vagonate incontrollabili di caldo schifoso e asfissiante, col termometro di casa mia a Bari che segna i 36 gradi fissi,
feste organizzate in improbabili masserie impestate dall’odore del letame fresco, confezionato e rivenduto magistralmente come “experience”,
pizzaioli sfiniti che a soli dodici euro + coperto ti servono una capricciosa del loro stress però affumicato in paglia con datterino giallo semi-dry,
piogge torrenziali improvvise che seguono alle vagonate di cui sopra,
concerti con bicchieri di birra Raffo PUGLIESEEE a sei euro,
mentre mi illudo come un imbecille di riuscire a pubblicare qualcosa prima che questa punizione abbia fine, consapevole che non ce la farò mai perché ormai agosto è dietro l’angolo, devo cambiare azienda il primo del mese e quel giorno dovrò probabilmente entrare in ufficio, fare ciao e prendermi un giorno di ferie istantaneo per andare a una festa aziendale, poi devo lavorare cinque giorni e stare altre due settimane in ferie per chiusura aziendale, poi a fine mese c’ho la gitarella di due giorni nel Basso Salento che mi vengono i brividi solo a pensare al concetto di Basso Salento e nel mentre tre matrimoni, di cui uno in Molise di un mio caro amico e un altro di una mia compagna delle scuole superiori, in una giornata dove mi farò trasportare dai ricordi di una adolescenza spensierata, passata tra i banchi di un istituto professionale che sembrava un manicomio e in realtà lo era1. Forse sarebbe stato meglio chiudere la baracca così, con la puntata su Atlante e tutto il resto. Una fine dignitosa, sapendo che alla gente è piaciuto leggermi e che non sarò ricordato come quei quattro fessi che hanno fatto le stagioni due, tre e quattro di Westworld.
Io, comunque, sono Massimiliano. Vi scrivo da Bari ma vi penso da posti un po’ diversi tra loro, perché le idee per questa newsletter vengono fuori da sole mentre sono in giro a fare cose. Tipo l’altra sera io e Ludovica abbiamo festeggiato un suo esame mangiando due polletti arrosto comprati sotto casa, in un locale che fa solo quello, cioè polletti arrosto. Vabbè fanno pure le patatine fritte. Ludovica li ha prenotati e io sono andato a ritirarli: era la prima volta che ci mettevo piede, ci lavorano tre persone, il girarrosto a gas era acceso con dentro solo i nostri due polletti e la porzione media di patatine, sulla lavagna c’era scritto “Ludovica 20:15”, ero pure in anticipo di un quarto d’ora e mentre il tizio me li incartava ho iniziato a turbarmi pensando che magari non lavorano abbastanza, che potevo sbrigarmi e arrivare prima così se ne tornavano a casa in grazia di dio ma forse a breve chiuderanno per sempre e anche se non dovrebbe importarmi in un attimo ero tristissimo, ho letto il nome di uno di loro sul foglio che recitava “linee guida igienico-sanitarie” e mi è sembrato di conoscerlo da sempre, poi il disegno di Lupin appeso lì vicino, ho pensato “magari glielo ha fatto il figlio, che tristezza se il padre fosse costretto a chiudere perché non si vendono abbastanza polli arrosto” e accanto c’era una foto di Cuba, forse un sogno nel cassetto o forse un ricordo di una vecchia vita fatta di avventure, prima di un ritorno improvviso a Bari, per necessità, per un genitore che stava poco bene e che poi magari non ce l’ha fatta, lasciando ai figli un anonimo girarrosto in zona Carrassi-San Pasquale. “Lo spruzzo un po’ di vino sui polli?”, si per favore, prendo anche due birre piccole e le patatine credo siano mie, posso pagare con la carta? Fortunatamente sono tornato sulla terra e ho pensato che avrei potuto scrivermelo da qualche parte questo malessere, così magari smetto di pensarci e me lo dimentico.
Oggi parleremo di una mia grande passione a cui ho già dato ampio spazio negli appuntamenti precedenti, ovvero la palestrAHAHAHAHAHAH. No, macchè, ti pare, oggi parleremo in realtà di uno dei motivi per i quali io non sarò mai adatto a un impegno costante come quello richiesto dalla palestra. Pensate che uno di quei pensieri che ogni tanto richiamo a me per rasserenarmi è proprio il ricordo di una infanzia spensierata, trascorsa nella mia cameretta a giocare per ore con i pupazzetti, costruendo mondi e avventure che univano quello che leggevo sui libri a quello che giocavo alla Playstation e ti pare che, proprio ora che sto diventando adulto e devo difendermi dalla mia monotona vita da impiegato, metto da parte tutta questa sconfinata fantasia per fare 3X10 di chest press a cedimento? Ma stai scherssando?
Buon appetito.
A proposito del concetto di manipolazione della realtà: giocate ad Axiom Verge, un gioco pensato, scritto, disegnato, sviluppato e musicato da una sola persona, Thomas Happ. Quando finite leggete il suo blog, che trovate qui, e guardate il documentario di come è stato realizzato, che trovate qui. È l’unico consiglio che sento di darvi per concludere questa estate provando ad essere persone migliori.
Leggere attentamente il foglietto illustrativo
Quanto è incredibile imparare a leggere? Davvero, leggere è una di quelle cose irreversibili della nostra vita, come camminare, aprire le porte o sputare: una volta che sai come si fa non si torna indietro. A volte sento come se sapessi leggere da sempre, come se fossi nato sapendo già farlo ma lo so che non è vero niente storia da bambino speciale perché ricordo ancora molto bene il giorno in cui ci sono riuscito per la prima volta.
Quel pomeriggio i miei genitori mi hanno portato a salutare la nonna Ratodda, la mia bisnonna che abitava in una via strettissima dove non ho mai avuto il coraggio di passare con la macchina. Quando andavamo a trovarla, la nonna stava sempre seduta sulla stessa poltrona, rivolta verso la TV e con una fracera2 accesa sotto ai piedi, forse anche ad agosto. Ho ancora addosso questa immagine molto nitida dell’ultima volta che ci sono andato: l’ingresso era praticamente al buio e lei era sulla poltrona, stava lavorando qualcosa a maglia illuminata dalla luce del televisore, su cui campeggiava un primo piano di Maurizio Costanzo. Faceva delle belle coperte con la lana, molto colorate.
Dopo aver marcato visita, siamo passati in farmacia e io ho insistito nel portare fino a casa le medicine, come un piccolo Sam Porter Bridges. Semmai non vi avessi ancora portato a casa dei miei, sappiate che all’ingresso bisogna assolutamente eseguire un rituale preciso, che vale anche per gli ospiti con opportune variazioni: si apre la porta, quattro mandate, ci si pulisce la suola delle scarpe sullo zerbino, strofinando almeno due volte per piede, poi le scarpe si tolgono, piedi ancora sullo zerbino, si prendono in mano e si portano alla scarpiera, di fatto codificando l’unico momento in cui è possibile camminare scalzi in casa; gli ospiti devono comunque togliere le scarpe, perché mia madre è in grado di secernere dalle mani diverse paia di comode ciabatte. Casa nostra è orgogliosamente piena di bellissimi tappeti persiani, scelti con cura da mia madre: se non ci fossero mi sentirei tipo ‘na cozza nuda, quindi non si può assolutamente rischiare di lerciarli con le scarpe, altrimenti bisogna chiuderli e portarli a lavare.
Quella sera le mie scarpe le ha prese papà: io sono andato in cucina, bello tondo, con ancora in mano le medicine, avvolte in questa carta con disegni di buffi personaggi; come se fosse la cosa più naturale del mondo, ho iniziato a leggerne ad alta voce i nomi, dal primo all’ultimo, con fare decisamente incerto. Papà si è precipitato in cucina con ancora le scarpe in mano, guardandomi come se stessi dicendo le preghiere al contrario: mi ha chiesto di farlo di nuovo e io l’ho fatto, per carità. Dieci secondi dopo è arrivata anche la mamma, stessa euforica fretta ma con mezzi vestiti addosso, perché aveva iniziato a cambiarsi: anche lei mi ha chiesto di leggere e poi, finalmente, “Mimmo, Mimmo! Lu piccinno sape leggere!”, un entusiasmo incontenibile, così esagerato da farmi dubitare, col senno di poi, di essere stato un bambino un po’ stupido. Eppure non avevo ancora compiuto cinque anni, cioè secondo me ci sta, forse erano così felici perché c’ero arrivato prima di Andrea, non lo so, ma da quel momento sono diventato ufficialmente il genietto di casa e alla fine la storia del bambino speciale ve l’ho infilata, VLEM e ogni tanto mi sono sentito maledetto per questa cosa, chiedendomi se non fosse stato meglio imaprare a calciare un pallone di cuoio all’incrocio dei pali.
Col tempo ho capito quanto è delicato il processo che porta un bambino a imparare a leggere, a fare cose che ci si aspetta dai bambini. La prima volta in cui Chiara, un’amica che fa la logopedista, mi ha raccontato in cosa consiste il suo lavoro, semplicemente non mi sembrava vero che esistessero anomalie del linguaggio. Su quella carta da medicine, comunque, due mosse altamente educative dei miei genitori hanno dato il loro succoso frutto ed entrambe ‘ste mosse erano installate nel computer di casa: una era la straordinaria enciclopedia Encarta 98, comprata in edicola da papà, che forse inconsciamente aveva intuito già la possibilità di unire apprendimento e divertimento. L’altra mossa era una serie di giochi educativi per bambini, che avevano come rappresentante maximo una copia masterizzata di So Di Più seconda elementare, gioco clamoroso concepito sicuramente dopo cinque bottiglie di Calafuria, a giustificare animali antropomorfi che parlano e cantano e insegnano ai bambini qualcosa sulla grammatica, sulle scienze e la natura, sulla storia.
Devo fare un passaggio dovuto. I miei genitori sono persone normali hahahah ma che vuol dire santo dio. Papà di mestiere fa il commerciante ambulante e in un’altra vita è entrato in un enorme Tesseract di Interstellar e ne è uscito ricco sfondato facendo quello che gli riesce meglio, ovvero il tuttofare, la persona che chiami se hai il lavandino che perde o la mensola che balla o la macchina che non parte. Da ragazzo ha frequentato una scuola magica, che quando ho fatto le medie era la minaccia standard per quelli che non studiavano, una sorta di “Se non ti impegni a quella scuola vai a finire”, come se agli stessi non fosse venuto in mente di non finire proprio da nessuna parte. Si trattava dell’Istituto Antoniano dei Rogazionisti di Oria, conosciuto anche come “Scuola di arti e mestieri” e che oggi ha preso il nome di Centro di Formazione Professionale: qui papà ha imparato principi di elettronica, meccanica, falegnameria e tutte quelle cose per le quali il suo numero è il primo che componi se hai un cazzo da risolvere.
La mamma, invece, ha frequentato una scuola di specializzazione per diventare infermiera, ricevendo il mandato divino di doversi preoccupare per la salute della nostra famiglia. Dopo un alcuni anni di transizione, in cui ha dovuto affondare le mani nel torbidissimo mondo del terzo settore e delle cooperative, ha trovato impiego in un centro analisi del nostro paese ah vabbè c’è una storia di una che ha fatto una storia Instagram su mia madre, no no lasciamo stare. Dal patrimonio genetico della mamma io ho rubato qualsiasi cosa: l’altezza, la fissa per l’ordine e per la pulizia, la passione per i tappeti, la necessità di vivere in una casa accogliente, l’amore verso gli altri, l’ospitalità come unico mantra e il rigetto totale per le materie matematiche.
Papà e mamma sono persone comuni, normali appunto, che per motivi diversi non hanno avuto modo di studiare serenamente, di frequentare l’università e poi buttarsi nel mondo del lavoro con qualche titolo nello zaino. Eppure casa nostra è stata sempre piena di libri di qualsiasi tipo, nonostante io possa giurare di non aver mai visto papà sfogliarne uno. In salotto abbiamo una libreria bellissima, tutta in legno lucido e stracolma di libri suddivisi in differenti categorie: c’è una intera collezione di grandi thriller e gialli che è di mamma, ci sono romanzi classici, fantasy, i principali capolavori della letteratura italiana, biografie, libri sulla storia della nostra città e poi le enciclopedie. Tante enciclopedie, una passione smisurata per le enciclopedie, probabilmente la somma di tutte le visite dei venditori porta a porta ricevute in quarant’anni.
Saranno state le condizioni ambientali o forse la mia stessa indole, ma fatto sta che sono cresciuto con una voglia incontrollabile di imparare e scoprire le cose. Quando papà ha regalato ad Andrea il suo primo computer, in una storia che giuro vi racconterò su MEMI prima o poi3, ha iniziato a comprare ‘na sarcina di giochi educativi ed enciclopedie per ragazzi, innescando un processo pazzesco per il quale tutto il tempo trascorso al PC era in realtà tempo investito, perché per noi fare i tour virtuali dei musei di Encarta era come giocare e imparare a leggere così presto è stata ‘na cazzata alla fine, era davvero la cosa più naturale di tutte. Che poi presto, oddio avvocato, davvero non lo so a che età i bambini dovrebbero imparare a leggere. Per noi era presto.
È stato bellissimo, come aprirmi le porte del mondo, quello vero, tipo quando finisci l’Altopiano delle Origini su Breath of the Wild. All’inizio non mi capacitavo del fatto che le lettere avessero iniziato ad avere un senso da un giorno all’altro: giravo in macchina con i miei e fuori dal finestrino leggevo i nomi dei paesi vicini scritti sui cartelli, in un susseguirsi di “Ostuni”, “San Michele S.no”, “Ceglie Messapica” e “Brindisi” fino a quando non avevo la nausea. Un giorno, durante un viaggio particolarmente lungo, ricordo di aver supplicato mio padre di insegnarmi a dimenticare come si legge, perché ero ormai sfinito dal dare un significato a qualsiasi cosa, consumato dalla testa che andava per i fatti suoi e si metteva a immaginare cose. Per colpa di un cartello stradale sulla Torre-Erchie, con su scritto “Campo da hockey”, ho creduto per anni che Torre Santa Susanna fosse una località di montagna, mentre invece è un paese a qualche chilometro da noi che, semplicemente, ha una squadra di hockey su prato; è per colpa delle insegne dei negozi con su scritto “Euro-shop”, “Garden Flowers” e “Everything for parties” che sono stato convinto per tanti anni che Ostuni fosse una ex colonia inglese.
Intervallo - compleanno in rosa
Settimana scorsa ho giocato a padel con i colleghi di lavoro. Straziante per quanto mi riguarda, perché accettare la sconfitta mi costa enorme fatica. Eppure è inspiegabile, ho sempre fatto cacare in tutti gli sport e il padel non fa eccezione e poi sono proprio quel tipo di sportivo che arriva al centro e si fa una birra e si fuma una sigaretta sei secondi prima di entrare in campo, come cazzo mi viene di prendermela a male non lo so.
Vabbè, sto divagando. Al centro sportivo c’era un compleanno dove il colore dominante era il rosa: la mia indole da maschio alfa figlio del patriarcato del sud e amante dei tackle in scivolata mi ha portato subito a pensare che fosse il compleanno di una bimba, idea assurdamente corroborata nella mia testa, si capisce dalle presenza di due animatrici che, in assenza di bambini da intrattenere, si stavano facendo dei TikTok. Ho scoperto poi, con magno stupore, che si trattava in realtà del compleanno di un ragazzino, Alessandro, e che il rosa era dovuto al colore della maglietta di Lionel Messi all’Inter Miami. Sul fondo del gazebo c’era infatti questo enorme banner del bimbo con indosso la divisa rosa e nera e il logo della squadra alle sue spalle; i segnaposto erano rosa, i bicchieri, i tovaglioli e i piattini erano tutti rosa pure loro e griffati Inter Miami e non mi stupirei se fossero prodotti ufficiali, se il reparto marketing avesse pensato anche a questo. C’era quindi questa tempesta di bambini che correvano come posseduti, con le loro classiche magliette da calcio di MilanInterJuveRomaBari, e poi c’era il più appariscente, il festeggiato, completamente in rosa e con dietro scritto Messi 10.
Me ne sono tornato a casa senza riuscire a smettere di pensare a questa cosa, alla gigantesca portata della mossa Inter Miami - Messi e all’impatto che, cose così lontane da noi, riescono ad avere sulle nostre vite. Probabilmente il 50% dei tifosi italiani over 40 non sarebbe in grado di dire il nome della squadra in cui oggi gioca il giocatore più forte del mondo ma nel frattempo sta crescendo una intera generazione di bambini e ragazzi che comprano le maglie, magari seguono le partite del campionato americano e non mi stupirei se, aiutati da EA Sports FC, avvesero imparato a riconoscere anche tutti gli altri giocatori della squadra.
Pazzesco, serviva proprio Messi per far festeggiare il compleanno di un bambino di Bari in rosa e tra l’altro devo anche registrare come, con l’arrivo dei turisti estivi, la città si sia riempita di gente con la bellissima maglia di Messi dell’Inter Miami.
Grazie Tiziana
A sette anni ho ricevuto in regalo il libro Harry Potter & la Pietra Filosofale, turning point fondamentale della mia vita, un momento a partire dal quale le cose sono cambiate per sempre. Mò ci arrivo, vediamo se riesco a spiegarlo.
Il pomeriggio successivo al mio compleanno, quello dei sette anni appunto, qualcuno ebbe la straordinaria idea di citofonare a casa nostra alle tre del pomeriggio, svegliando la mamma e dando il via al consueto carosello di lei che si incazza se disturbata mentre dorme. Era Tiziana, un’amica di famiglia e mamma di Marco, un mio compagno di classe delle elementari, un bimbo sveglio che a sette anni parlava già l’inglese, suonava benissimo il pianoforte ed era in grado di indicare Eminem e i Korn come suoi artisti preferiti. Tiziana faceva l’insegnante, anzi Tiziana era insegnante, si capiva benissimo dall’approccio che aveva con noi bambini: inoltre, credo fosse proprio un sergente di ferro, per via di due eventi distinti che mi hanno coinvolto personalmente.
Un pomeriggio stavo giocando con suo figlio sul balcone di casa loro, attaccato alla scuola superiore dove Tiziana insegnava: alcuni ragazzi salirono sul tetto della scuola e iniziarono a tirarci delle pietre addosso tipo battaglia de I ragazzi della Via Pal; Tiziana venne fuori con fare rilassato, come se quella roba fosse all’ordine del giorno, chiedendoci di rientrare mentre i ragazzi le urlavano “Puttana! Sei una puttana!”; io e Marco volevamo saperene di più ma lei ci rispose semplicemente “Ignorateli, sono dei buzzurri” e quella sera tornai a casa con una nuova parola. Dieci anni dopo me la sono ritrovata nella commissione degli esami di maturità: era una vita che non la vedevo e l’ho salutata con educazione, chiamandola “Professoressa”; lei ha ricambiato con un sorriso e poi si è presa la responsabilità di farmi sedere da solo in fondo al corridoio, così da non poter chiedere o offrire aiuto. A un minuto dall’inizio della prima prova, mi è venuta incontro sorridendo e mi ha sussurrato “Vediamo che sai fare” e io ho pensato molto semplicemente “Questa è puttana veramente”, perché poi alla fine ho preso tipo 5 su 15 al test di matematica per colpa di quella cosa.
Tiziana amava regalare libri quando tutti si aspettavano giocattoli e già qualche anno prima aveva regalato a mio fratello una intera collana di libri per ragazzi pubblicata da Fabbri Editore. Con me decise di puntare su qualcosa di più recente e che in casa non si era ancora mai sentito nominare: al citofono mi chiese di scendere, anticipando che c’era un regalo per me; mi precipitai giù per le scale, pronto a scartare un gioco per la Playstation visto che Marco ne aveva parecchi e invece mi ritrovai con un libro in mano. Ero palesemente deluso, credo di non essere riuscito a nasconderlo: ho ringraziato educatamente, salutato mamma e figlio e poi sono risalito mogio mogio, grattando con le unghie il tratto di penna che copriva il prezzo. Poi, ho poggiato il libro sulla scrivania e per qualche giorno me ne sono dimenticato, fino a quando non mi sono detto che comunque valeva la pena provarci.
Harry Potter è stato in assoluto il primo libro di mia esclusiva proprietà e mi è letteralmente esploso nel cervello. Mentre scoprivo il mio modo di leggere, ovvero steso sul letto, con due cuscini alle mie spalle, ho iniziato ancora di più a immaginare mondi, razze e persone, a far volare la fantasia, a sentirmi davvero una persona speciale per via di tutte le cose che mi porto dentro, per il mio modo di interpretare la realtà. Mandavo giù tutti i capitoli, uno dietro l’altro, e intanto mi rendevo conto che stavo cambiando la mia idea sulle persone, sugli amici di scuola che mi circondavano: la mia scuola elementare era ed è ancora oggi nel cuore del quartiere 167, quello delle case popolari dove sono cresciuto; in classe c’erano dei compagni che venivano dalle situazioni più disparate, dai genitori con le attività di famiglia ben avviate alle famiglie disgraziate di persone senza lavoro, che vivevano nei garage dei condomini a cinquecento metri da casa mia. Non ci ho mai visto nulla di male, anzi, mi rendevo conto che anche loro, nonostante tutto, avessero qualcosa da raccontare e questo mi riusciva facile perché i personaggi di Harry Potter sono così, se ci pensate: ci sono i Weasley che sono poveri in canna, ci sono i Malfoy che son pieni di soldi, ci sono i bambini speciali che fanno cose speciali e quelli stupidi che fanno pure loro cose speciali e poi c’è gente che dorme negli sgabuzzini e riesce comunque ad andare avanti. Ho pensato che quella fosse la vita, nulla di più.
Grazie a quel libro e a quelli che sono venuti dopo, tutti gelosamente custoditi nella mia camera da letto a casa dei miei, ho conosciuto un sacco di persone, come la stessa Melania, la mia compagna di classe delle superiori, quella che si sposa a fine estate e che condivideva con me questa passione. Proprio poche settimane fa mi ha mandato una foto: sua figlia a letto e lei che le stava leggendo il primo capitolo del primo libro di Harry Potter, dal titolo “Il bambino che è sopravvissuto”. Pure mia mamma ha iniziato a leggere i libri della Rowling e ogni nuova uscita diventava un momento di enorme festa: uscivamo da soli io e lei, per andare a comprare il libro da qualche parte e al ritorno ci contendevamo il diritto di leggerlo. È stata indubbiamente una delle prime cose che ho condiviso con lei e quando ho scoperto che stava provando a prestare i nostri libri di Harry Potter senza dirmi niente mi sono incazzato da morire. Poi ho pensato che magari era una cosa utile per altri ragazzi, affinché potessero anche loro creare un rapporto speciale con i loro genitori. Comunque sticazzi, che andassero a comprarseli, quelli sono miei.
Ma soprattutto, con quel libro ho capito a cosa servisse davvero leggere e ho compreso come utilizzare questa capacità, che poi è diventata necessità e poi passione. Non mi sono più fermato: ho letto tutto quello che c’era in casa, prendendo roba a caso dalla libreria dei miei o da quella in camera di mio fratello.
Lo stigma del lettore
Oggi se ti piace leggere tendenzialmente sei un imbecille e non lo dico io, lo dice la scienza. Leggere comporta la necessità di isolarsi, esattamente come con gli smartphone ma senza suoni di gatti che miagolano e notifiche di Whatsapp. Se leggi con gente intorno però sei un asociale, sei quello che deve fare sempre l’alternativo, il coglione che non sa stare insieme agli altri. Io a ‘sta cosa dello stigma del lettore ci credo davvero, me la sono sentita addosso e mi è venuta due anni fa, mentre ero al mare una domenica.
Stavo lì, a rompermi i coglioni in ottantasei modi diversi, quando ho tirato fuori un libro per distrarmi un po’. Il libro a mare faceva parte del mio approccio scientifico ed era la tattica di quell’anno, dopo aver cambiato telefono e operatore nell’estate 2021, così da avere giga infiniti e una batteria durevole per poter stare tutto il tempo a scrollare e guardare video. Non è stato il massimo, anche perché a mare il telefono non prende benissimo e comunque dopo un po’ ero saturo di guardare quello che facevano gli altri. L’anno dopo, invece, ho dormito. Tutto il giorno. Arrivavo al mare, stendevo l’asciugamano e dormivo per tutto il tempo, svegliandomi di tanto in tanto per dare segni di vita. È stata in assoluto la tecnica peggiore tra tutte e ho anche scoperto che in quei casi il tempo non scorre più velocemente. La scorsa estate ho provato qualcosa di diverso e mi sono messo a leggere: per ora si sta rilevando la soluzione migliore, anche se mi ha fatto guadagnare una bella dose di prese per il culo, perché è risaputo che al mare non si può leggere, al mare si deve parlare o prendere il sole o camminare sul bagnasciuga o bere e parlare con quelli che bevono o fare il bagnetto o giocare a beach volley o giocare a bocce o fare le parole crociate. Ma sicuro non si può leggere. Quest’anno mi sono rassegnato e ho deciso di provare a fare cose da mare: arrivo, pianto il nostro bell’ombrellone con la punta quella lì tipo trapano avvitatore, mi tolgo la maglietta e mi metto a prendere il sole, parlando di cose sulle quali non ho la più pallida idea e spalmandomi del burro abbronzante addosso. Non sto scherzando, chiedete agli amici miei.
E comunque anche al lavoro sono stato colpito dallo stigma del lettore. Dopo il matrimonio di Andrea, banalmente, mi sono imposto di smetterla di usare costantemente il telefono, evitando di portarmelo appresso. Le pause al lavoro sono state l’ambiente di test ideale, perché ci spostiamo sempre in una sala apposita e posso lasciare il telefono sulla scrivania senza curarmene. I primi giorni sono stati tipo tossicodipendente che inizia la riabilitazione: mi ritrovavo in questa stanza, in compagnia di altre tre o quattro persone che ne approfittavano per scrollare mentre io non avevo nulla di meglio da fare che fissare il vuoto. Ho iniziato ad annoiarmi, immerso in lunghissimi minuti di silenzio in cui siamo seduti tutti allo stesso tavolo ma ognuno si sta facendo i cazzi suoi. Oh, sia chiaro, fino a ieri lo facevo pure io in modo piuttosto importante e mi rendo anche conto che non è semplice e che costa molta fatica, soprattutto all’inizio, perché nessuno sembra accorgersi che io sono lì ad aspettare di parlare con qualcuno. Poi mi sono abituato, anche se credo di sembrare un pazzo se visto da fuori.
Quindi ho iniziato a leggere. Ho preso un libro dalla libreria aziendale, si chiama “The Lean Startup” ed è scritto da Eric Ries, un tizio americano che ha iniziato come software engineer e ha fondato una azienda, IMVU Inc., che tipo faceva avatar per sistemi di messaggistica istantanea. Lui e i suoi soci sono diventati inspiegabilmente ricchissimi e Reis ha raccontato il loro metodo per avviare e gestire una azienda. Le prime sessanta pagine sono di una fuffa clamorosa, non dice mai nulla di interessante e gira intorno all’argomento; dopo inizia a portare esempi concreti, raccontando alcune esperienze vissute in prima persona con la sua azienda o testimonianze delle aziende con cui ha lavorato e vengono fuori dei concetti interessanti. Intanto mi sono dovuto sucare le battutine, tipo “Sei l’unico che legge qui dentro” e “Ancora alla premessa stai?” e tipo sto a metà libro ma che ci vuoi fare, è così che funziona.
Forse dovrebbe importarmi di meno di quello che mi dicono ma non ho mai capito come si fa. Non riesco mai a tirarmi indietro, a non dare un senso alle parole, a farmi scivolare addosso quelle battute sibilline che mi sembrano sbagliate, fuori luogo. Ha ragione Vincenzo quando dice che sto diventando più emotivo perché ormai troppe volte scopro che sto lì a pensarci, come un fesso, al senso delle parole e più divento grande e più mi rendo conto di non volerle sprecare o forse non ho sempre qualcosa da dire come prima. Sento le risposte che mi salgono su per la gola e poi si fermano, le deglutisco, oppure le lascio dentro di me a farmi compagnia, le risparmio per quando mi torneranno utili, per quando faranno fatica a venire fuori da sole, mentre mi ripeto quelle di nonno Mimino, che quando aveva ancora forza per parlarmi mi diceva “No ‘ssi spiega la scienza alli fessa”.
Non so quando ci sentiremo, penso più in là, spero a settembre. In realtà avevo mezza idea di raccontarvi la mia estate associando i posti dove sono stato alle aree di Dark Souls, ma di fatto devo pur viverle le cose per poterle raccontare e poi vi volevo raccontare di come ho seguito ogni singola partita degli Europei di calcio perché mi sembra un buon pretesto per tirare fuori qualcosa. Alla fine sono sicuro che la prossima volta vi parlerò di panini.
Un abbraccio
meglio ancora, il leggendario IPSSAR Sandro Pertini di Brindisi prendeva posto all’interno dei vecchi locali dell’Ospedale sanatoriale Cesare Braico, all’interno dell’omonimo parco dedicato al patriota. L’ospedale serviva per la cura degli ammalati di tubercolosi assicurati dall’INPS e per questo era circondato da tantissimo verde. Venne chiuso nel 1979, lasciando posto a una scuola di pazzi scollegati e professori con evidenti problemi relazionali;
sarebbe un bracere da interno, un recipiente (di ottone forse? ma che ne so io) con delle gambette che lo tengono sollevato dal pavimento, in cui si mettono a bruciare robe per riscaldare l’ambiente;
anche perché ‘sta pure mezza scritta e a un certo punto fa così: Andrea, mio fratello, non era in grado di resistere alla tentazione, al richiamo del proibito, al fascino dell’avventura. Era un ragazzino, come posso dire in maniera gentile, vivace, ecco, coi capelli alla spina e l’impianto stereo nella camera, settato ad-hoc per far esplodere i bassi delle tracce di “Antonio Panzarino, la musica e il casino”;
Leggere sotto l'ombrellone è una delle cose più rilassanti che si possa fare a mare. Mai capito perchè sia un'attività così osteggiata dai più